Siamo forse davanti al de profundis della politica? Della politica intesa come discussione pubblica, partecipazione, confronto e scontro nel Paese e nelle istituzioni? Siamo al silenzio tombale delle opinioni dinanzi alla conduzione tecnica cui sarebbe costretta l’attuale “repubblica dei migliori”? Molti indizi indurrebbero a pensarlo. Primo tra tutti il movimento imperioso, nemmeno sottotraccia, che ha spinto Draghi alla guida del Paese. Una spinta possente prodotta, in primo luogo, da potentati economici, lobby, gruppi di pressione, mondo delle imprese, categorie sociali, e riflessa benevolmente sui media embedded. C’è poco, c’è davvero pochissimo di politico negli eventi di questi ultimi mesi, quelli che hanno condotto al nuovo governo e alla formulazione del documento finale sul Recovery Plan. Tutto è apparso come l’effetto di un movimento “tecnico”, di una spinta efficientista, come problem solving rispetto al tema del Recovery e delle presunte riforme. Una chiamata alle armi dei migliori e del migliore di tutti, per ottenere risultati che la “politica” non sarebbe stata in grado di produrre. Una mossa che doveva mettere da parte i “litigi” dei partiti, producendo quello scatto in avanti indispensabile a portare l’Italia sulla retta via della crescita.
Non c’è nulla di nuovo, o di inedito, in questo scenario. Mica soltanto da oggi si cantano le meraviglie dei competenti e della tecnica, mica solo da oggi si denigra la politica, le si conferisce un’immagine macchiettistica, di inutilità, anzi di dannosità. Il punto è un altro. Ed è che effettivamente il tasso di politica in circolazione è sotto soglia, effettivamente i potentati, per prime le imprese, ormai si rappresentano da sé. Un salto di qualità che i 230 miliardi di euro hanno prodotto, infine, senza più remore. L’effetto visibile di tutto ciò? Partiti ridotti a ectoplasma, classe politica ancillare, confini che saltano tra istituzioni e consigli di amministrazione, tra interesse pubblico e interesse aziendale. La democrazia è indebolita, almeno se la intendiamo come partecipazione e azione collettiva, come scelta pubblica e come stile di governo.
La sinistra, da parte sua (e conseguentemente), è un campo di croci. Il PD appare sempre più sottile, quasi invisibile, dinanzi alla rugosità del sociale, alla durezza dello scontro di potere. Le contraddizioni che lo attraversano divengono ogni giorno più potenti. La chiamata all’unità riformista è il segnale che è in atto una spallata per infrangere ogni possibile dialogo con i 5stelle e con le opportunità offerte dalla leadership di Conte. Una selva di micro-formazioni occupa il campo centrale, tutte o quasi animate dall’intento di ribaltare il guanto di ciò che si muove sul lato sinistro dello schieramento. La strategia dell’Autogrill fa sinceramente impressione e ci inquieta. In generale, c’è poco da meravigliarsi se poi le imprese si mangiano tutto e puntano a insediarsi direttamente sul trono tra gli applausi della destra.
Veniamo a noi, adesso. A chi scrive, a quella che Fausto Anderlini chiama la Sovrintendenza, allo zoccolo duro del famoso zoccolo duro, a coloro che concedono alla politica il privilegio di fungere da bussola nel tentativo di comprendere il mondo. Perché, poi, si fa presto a dire “politica” – ma quelli che concretamente, giorno per giorno, alimentano il discorso pubblico, partecipano alla discussione generale e sono in prima linea nel tenere accesa la speranza siamo noi, i sovrintendenti, la nostra linea d’ombra culturale, sottile ma solida, che fronteggia il disincanto e detta, o vorrebbe dettare almeno, il passo per intravedere una strada di rinnovamento, di cambiamento, di dignità, di riscatto. Se finisce la politica finisce anche questo affollato mondo di appassionati della giustizia sociale, di cultori della cultura politica, di innamorati dei destini collettivi a partire da quelli degli ultimi e degli sfruttati. Noi siamo qui a resistere, come sempre, come da sempre, non ci schiodano mica. Deteniamo tutti assieme uno spirito che ha resistito, infine, anche a Renzi, Calenda e compagnia cantante. Eppure, per la prima volta, percepiamo un senso di disincanto, che mai, mai, si era così percepito prima. Come se le vacche iniziassero a dipingersi tutte di nero, come se le porte si chiudessero tutte assieme, come se lo zoccolo duro dello zoccolo duro si assottigliasse sino a divenire la più classica della carte veline. Può capitare dopo decenni di barricate, di usura, anche di sconfitte, ma è un segnale di cui si deve tener conto.
C’è un rimedio? O meglio: c’è la possibilità di una risalita? Forse sì. Anzi senz’altro, a patto che si ampli lo sguardo e si individui l’esatta dimensione e ampiezza della patologia. Che non riguarda solo il nostro campo, ma la politica nella sua generalità (e torniamo così all’incipit di queste riflessioni), la politica nel suo stato luttuoso. Siamo chiamati a rigenerare la trama delle relazioni, a rivitalizzare la mediazione e il confronto pubblico, a ricostruire le forme della politica a partire dai partiti (i partiti, non solo il partito). E non basta farlo come in un laboratorio asettico, in vitro, tra sé e sé, tra uguali e ben distanti dalla durezza della partita che si gioca attorno. Bisogna ricostruire la politica (le sue trame, le sue relazioni e mediazioni, le sue forme, le sue rappresentazioni e, soprattutto, la sua etica e i suoi sentimenti) nel vivo dello scontro, in un bagno di realtà, a contatto con tutto ciò che si muove anche in modo ostinato e contrario, anzi soprattutto. Un’azione che cerca l’azione, non la pace della teoria. Crediamo non basti far concrescere un partito attorno a se stessi, non basti celebrare in vitro la propria identità, non basti il “piccolo è bello” – si tratta, invece, di avviare un’azione politica che affronti l’altro, l’alleato e l’avversario, e nel rumore del confronto-scontro punti a ritessere relazioni e forme che oggi mancano. Che oggi ci mancano. In assenza delle quali i potentati avanzano senza resistenze e vanno direttamente al governo del Paese, nell’oblio totale della rappresentanza.
E bisogna ritrovare la bellezza di dire le nostre parole senza infingimenti, di dire pane al pane e vino al vino. Non è tempo di cacciaviti per avvitare viti spanate; politiche che da un trentennio, oltre ad approfondire i disastri sociali ed economici, ci hanno prima ammaliato, pensando che le avremmo potute rifilettare e sistemare, e poi ci hanno inghiottito nel gorgo del giro a vuoto, dell’irrilevanza. Guardate al Pd, un partito che non cresce e non crepa, una vite che gira a vuoto, senza infiggersi da nessuna parte, senza ormai sorreggere alcunché. Uno strumento inservibile, ormai. Strappato alla parvenza residuale di una rinnovata appartenenza al campo della sinistra, per essere rimesso nelle mani di un garante degli stessi immarcescibili equilibri (a proposito di cacciaviti!). E’ ora che qualcuno si incarichi di dire basta, basta così.
Questo ci insegnano questi anni di lutto politico. Guai a pensare la politica come un derivato di facebook o come una seconda linea del fronte delle imprese o come una certa agitazione di superficie, a cui non corrisponde nulla tra la gente: pensiamo alle micro-primarie che appartengono a un micro DNA di una microsinistra: per farci cosa, poi? Non è evidente che una classe dirigente non nasce così, tantomeno in laboratorio, ma nel vivo dello scontro, delle relazioni, della mediazione anche aspra? Detto ciò, potete stare tranquilli: la Sovrintendenza resta all’erta e continua a passarsi il testimone di generazione in generazione, anche se il disincanto ormai ci lusinga e ci carezza freddamente. Tutto questo era solo per dire che si può anche passare la mano, si può anche perdere e magari scomparire in un gorgo muti, ma non come se la nostra storia fosse stata uno scherzo, un incidente di percorso oppure una vizio assurdo di cui liberarci seduta stante.