Come accade in prossimità di elezioni si riapre il dibattito sull’uguaglianza di genere, sulla rappresentanza paritaria all’interno delle liste. Lettere aperte, petizioni, prese di posizione che chiedono il dovuto riconoscimento per le donne nelle liste elettorali. Noi ritenute (ancora) prive degli attributi e delle capacità necessari per stare nei luoghi dove si decidono liste, listini, chi sta dentro e chi sta fuori.
Anche le donne della comunità politica di Articolo Uno interrogano Roberto Speranza sull’argomento. Una lettera significativa che invita il gruppo dirigente “a cercare gli spazi per una presenza autorevole e rappresentativa di altre candidature femminili”, “che riconoscano l’importanza del nostro lavoro ad impegnarsi per un maggior ruolo e visibilità delle donne in Articolo Uno e ogni volta in cui Articolo Uno dovrà definire ruoli, nomine e delegazioni”. Sottoscrivo ogni parola scritta dalle compagne.
Per questo mi sento di condividere che l’essere femministe implichi molto di più che la sola uguaglianza di genere. Implica la presa di coscienza riguardo alla giustizia fiscale, alla transizione ecologica, all’immigrazione che non è un’emergenza sociale ma l’esito di una società squilibrata. Penso che la scelta di Articolo Uno di ricostruire un’area progressista anziché fare l’ennesima lista di convenienza, sia frutto di quella presa di coscienza. Per questa scelta è stato pagato un prezzo molto alto e il riconoscimento parziale del lavoro fatto in questi anni da Cecilia Guerra ne dà la misura. Ne siamo consapevoli.
Una consapevolezza politica che viene dalla nostra storia femminista, dalla Carta delle Donne del Partito Comunista che riconosce la differenza come fondamento della propria identità, forza e valore positivo da affermare. Ci siamo confrontate con i nostri vissuti, le nostre relazioni dentro e fuori la famiglia, messo in discussione l’ordine impostoci dalla società patriarcale. Abbiamo manifestato per un mondo più sano di fronte al disastro di Chernobyl, ci siamo battute per sanità e asili nido pubblici, rivendicato un lavoro giustamente retribuito, chiesto una scuola di qualità. Avevamo ragione su tutto.
Oggi abbiamo una responsabilità in più. Non possiamo narrare una storia a metà, non possiamo sacrificare sull’altare della sovranità democratica il fatto che ancora oggi il patriarcato istituisca sia la libertà che il dominio: la libertà degli uomini e la soggezione delle donne.
Non possiamo accontentarci pensando che la svolta progressista avvenga solo nel riconoscimento dei diritti civili. La libertà civile non è universale, bensì un attributo maschile dipendente dall’ordine patriarcale.
Non narriamo una storia a metà. La piena partecipazione politica delle donne sarà la svolta progressista del Paese, renderà sostanza l’Italia Democratica e Progressista. Non nego che tra di noi ci sono differenze importanti ma l’essere donne supera le nostre divergenze.
Non perdiamo questa occasione, convochiamoci e pratichiamo la tanto predicata trasversalità valorizzando nel dialogo e nell’ascolto il lavoro delle tante donne impegnate ogni giorno nelle associazioni, nella propria professione o semplicemente nell’attività quotidiana.
La differenza tra femminista e femminile sta nel partire da noi: programmi di investimento nella transizione ecologica, nella scuola, nella salute pubblica, negli asili nido, nel lavoro giustamente e equamente retribuito e per riconoscere il lavoro di cura delle donne. Noi, proprio perché donne siamo l’unico antidoto a Giorgia Meloni Premier.
Sono troppo idealista? Può darsi, ma è proprio nelle battaglie impossibili che si trovano le energie migliori.