Premetto che condivido le parole di Draghi. E che quel documento andrebbe letto e discusso nei luoghi che contano, dove la politica decide. Ma alcune domande ho il dovere di porle. Siamo certi che l’ex Governatore della Bce parlasse alla cucina italiana? Siamo certi che l’imputato principale di quel j’accuse invece non fosse la rigidità dei paesi del Nord Europa, Germania compresa, che non ne vogliono sapere di Eurobond e di superamento del paradigma dell’austerity? Siamo certi che il richiamo agli anni ’20 non scaturisca dal timore legittimo di uno scivolamento in senso nazionalista di intere masse di disoccupati delusi da elites immobili, aristocratiche e insensibili al dolore sociale di una crisi senza precedenti?
Se sono vere queste domande, mi chiedo quale sentimento – se non la noia o il rancore – spinga alcune leadership politiche a ricavare da questo passaggio strettissimo in cui sono precipitate le democrazie liberali la necessità di un governo d’unità nazionale guidato dallo stesso Mario Draghi. Questo tornante della storia ci insegna invece che gli automatismi non esistono più, nemmeno quando sono ammantati di emergenza. Che c’azzecca insomma Draghi, direbbe Di Pietro?
Una cosa è la collaborazione istituzionale permanente tra forze diverse davanti alla pandemia, un confronto serio e non propagandistico sui provvedimenti da assumere, il sostegno alla coraggiosa presa di posizione del presidente Conte al vertice Ue su Mes e debito, un mutuo soccorso sulle misure da adottare, una collaborazione tra articolazioni dello stato (Governo, Regioni, Comuni) guidate da sensibilità politiche differenti, altra cosa è un governissimo dove siedono contemporaneamente in un gabinetto di guerra Lega e Pd, Forza Italia e M5S, LeU e Fratelli d’Italia, Italia Viva e UDC.
Qualcuno sano di mente pensa che questa ipotesi sia realistica? Qualcuno crede che durerebbe più di un quarto d’ora la convivenza tra partiti e orientamenti culturali così distanti?
Persino il riferimento al CLN non ha alcun senso, è inutilmente altisonante e non ha appigli con la storia. Il CLN era composto da partiti che avrebbero scritto insieme la Costituzione. Qui più prosaicamente non si riesce nemmeno a trovare l’accordo su una legge elettorale.
Capisco l’obiezione: la crisi cambia tutto. Verissimo, innanzitutto a sinistra dovrebbe archiviare definitivamente l’illusione che il mercato possa fare da sé. Discutiamo allora di questo, non inoltriamoci in terre incognite che non hanno alcun contatto con la realtà.
Prima che scattasse il lockdown c’erano effettivamente manovre in corso abbastanza significative, animate da Matteo Renzi innanzitutto, che puntavano a superare la leadership di Conte. E’ il segreto di Pulcinella, ad essere onesti nemmeno tanto nascosto dalle interviste e dagli atti del senatore di Firenze. Finite le munizioni a sinistra, l’ex rottamatore desiderava richiamare dalle secche del Papeete Matteo Salvini, riportandolo in gioco, magari mondandolo da qualche estremizzazione sovranista e liberandolo da qualche felpa extralarge. Con il beneplacito di qualche grande quotidiano, con la complicità esplicita di qualche ammalato di retroscenismo compulsivo e sicuramente con il seguito roboante di una selva di commissari buoni per tutte le stagioni e per tutte le emergenze.
Ma non sarebbe stato un governo di unità nazionale. Si sarebbe trattato semplicemente un esecutivo di destra pret à porter, per iniettare un po’ di idrolitina a una legislatura partita male e stabilizzare in senso presidenzialista il sistema istituzionale del paese.
Insomma: tutti tranne Conte, garante della spaccatura dei due populismi che avevano vinto le elezioni nel marzo del 2018. Se è questo l’esperimento lo si dica in termini chiari, senza ricorrere all’ombrello di Draghi. Sarebbe una manovra spregiudicata, uno spostamento poderoso a destra del quadro politico, ma avrebbe una leggibilità e persino una sua trasparenza. Non usiamo dunque un’epidemia come cavallo di Troia per un’operazione politica che punta a ribaltare l’attuale maggioranza che governa il paese attraverso la fiducia del Parlamento. Si dicano le cose onestamente come stanno e si facciano scelte conseguenti.
Le conseguenze della pandemia saranno di lungo periodo, scaveranno nel profondo della psicologia delle comunità nazionali, lasceranno a terra milioni di lavoratori, produrranno fallimenti di imprese che apparivano intangibili, modificheranno il rapporto tra l’uomo e l’ambiente, trasformeranno le relazioni sociali tra gli individui, produrranno una de-globalizzazione degli scambi di merci e persone, imporranno scelte sulla tassazione delle grandi multinazionali del web (le uniche che si stanno salvando in questa tempesta), riscriveranno il rapporto tra autonomie e stato centrale.
Davanti a questo disastro l’insostenibile leggerezza della politica post ’89 sarà spazzata via e con essa la bulimia personalistica di leadership effimere senza idee e senza popolo.
Tornerà l’esigenza di partiti politici solidi, ideologici, radicati socialmente e territorialmente. In grado di programmare il futuro, non una singola campagna elettorale. Tornerà una domanda di stato e la sfida sarà perché questa non si trasformi in una domanda di isolamento nazionale. Tutto il resto sarà derubricato alla cronaca. Vincerà chi riuscirà a somministrare il tampone della realtà a una politica asintomatica che ha perso la capacità di volare, di sognare, di progettare.