Vent’anni fa, il 13 novembre 1999, nell’Aula Magna dell’Università di Bologna, in Santa Lucia, si svolse la tradizionale lettura promossa dall’associazione “il Mulino”. Titolo: Il Ventesimo secolo è stato peggiore degli altri? Relatore lo storico Charles S. Maier. Con questa risposta di Maier: sì, il XX secolo è stato “il peggiore nella storia dell’umanità”. Con un bilancio altamente catastrofico, nella contabilità delle devastazioni, delle atrocità, delle vittime. Il secolo di due guerre mondiali le quali, viste a distanza di tempo, nell’incastro dei motivi che le hanno provocate, appaiono non già separate ma unite da una sostanziale continuità. Trait d’union i totalitarismi.
Alla prima parteciparono 28 Stati. Alla seconda 61. Quest’ultima, come è stato detto, talmente ampia da diventare, a sua volta, totalizzante, nell’annullamento della distinzione tra forze armate e società civile, campi di battaglia e fronti interni. La maggioranza delle vittime, civili. Nella prima guerra mondiale, solo il 5%. Nella seconda, il 66%. Innocenti, vale a dire non in armi, inermi. Con una quota notevole di bambini. Dei sei milioni di polacchi uccisi dai nazisti, un terzo, minori.
Altro elemento del carattere anomalo, e tuttavia figlio della modernità, conferito al conflitto dal nazismo: la pianificazione dell’orrore, secondo un aberrante uso della tecnica, in una forma di somministrazione industriale, seriale, della morte. Una catena di montaggio per l’eliminazione dell’altro, per la soluzione finale (Endlösung), alla farneticante ricerca di uno spazio vitale (Lebensraum). Lo sterminio nella fabbrica dell’annientamento. Auschwitz è al vertice di questo intreccio di fili ad alta tensione tra volontà di potenza, razzismo, identificazione della politica con la violenza, organizzazione. Anche questo ha contribuito a renderlo un unicum nella storia.
A scanso di equivoci, non dovrebbe esserci bisogno neppure di ribadirlo, gravissime, senza giustificazioni o attenuanti, le responsabilità a carico della Germania nazista, dell’Italia fascista, del Giappone, l’Asse Roma-Berlino-Tokyo, nello scatenare la seconda guerra mondiale; non senza sconcertanti cinismi tattici come il patto Molotov-von Ribbentrop, ai danni della Polonia. Per capirne la luciferina assurdità basterebbe mettersi nei panni di un antifascista europeo del tempo.
A distanza di tanti decenni è giusto allargare lo sguardo per cogliere, nella rilettura storica, alcuni eccessi, che pure vi sono stati, da parte degli alleati, verso i quali la gratitudine non deve impedire di riconoscere gli effetti che ha avuto l’utilizzo che è stato fatto, da parte loro, dell’aviazione.
Non a caso qualcuno ha sostenuto che le sorti della guerra contro l’asse nazista, fascista e nipponico, siano state decise più in cielo che in terra. Già nel 1943 le forze aeree inglese e statunitensi operarono sulla Germania sganciando sul suo territorio qualcosa come più di 200.000 tonnellate di bombe. Su Amburgo, tra la fine di luglio e l’inizio di agosto, provocando 50.000 vittime civili, coinvolte in una vera e propria “tempesta di fuoco”. Su Dresda, nel febbraio del 1945, dalla notte del 13 febbraio 1945 circa 800 aerei alleati sganciarono 2.640 tonnellate di bombe, con un numero di vittime civili tra i 25.000 e i 35.000. Sino a Berlino, il 3 febbraio 1945, con 25.000 morti civili.
Ripeto: è un argomento da affrontare cum grano salis, con giudizio ed equilibrio, aspetti sempre meno presenti nel dibattito pubblico. Forse è il caso di ricordare anche ciò che accadde, a causa del regime fantoccio della Repubblica sociale asservita al Terzo Reich, alle città del centro-nord Italia, tra il luglio 1943 e la primavera del 1945. In modo analogo l’aviazione statunitense operò nei confronti del Giappone sul finire del 1944. Nell’estate del 1945 gli aerei Usa avevano già sganciato più di 41 mila tonnellate di bombe sulle città nipponiche, in particolare nelle 65 incursioni su Tokyo, effettuate tra il dicembre del 1944 e l’agosto del 1945, provocando circa 140.000 morti. Nell’operazione Meetingshouse, tra il 9 e il 10 marzo 1945, morirono più di 120.000 persone, con circa un milione i profughi. Agli inizi di agosto 1945 più di sessanta città giapponesi avevano subito bombardamenti con circa 600.000 morti.
E’ sulla base di queste premesse che intervengono i drammatici episodi di Hiroshima e Nagasaki.
Alle 8 e un quarto del 6 agosto 1945 il cielo era limpido quando Little Boy, dal soprannome di Roosevelt, fu lanciata su Hiroshima, con un paracadute, da un bombardiere B-29, Enola Gay. L’ordigno, lungo tre metri, pesava 3.600 chili; uranio 235, potenza di 12,5 kiloton di tritolo. Quando esplose, a 580 metri dal suolo, la temperatura della sfera di fuoco che si formò, 100 metri di diametro, era di 1800 gradi all’esterno e di 300.000 al suo centro. Provocò subito la morte di circa 140.000 persone; altri, i bambini pika, i “figli del lampo”, nacquero con malformazioni negli anni successivi. Mentre i feriti vagavano, in uno scenario spettrale, ciechi, con pupille, iridi e cornee bruciate, vomitando sangue, braccia e schiena una massa di vesciche.
Il 9 agosto 1945, stessa cosa a Nagasaki, il bombardiere B-29, questa volta denominato Bock’s Car, con il carico della seconda bomba, al plutonio, Fat Man, ossia “ciccione”; 74 mila morti all’istante e un’eredità di danni radioattivi che proseguirono per decenni.
Ovviamente, secondo la logica dell’utilizzazione multipla di un’unica azione, la bomba atomica è servita a questo ma anche ad altro. A segnare una supremazia Usa, dando un messaggio al mondo, in particolare all’Unione Sovietica, alleata contro il nazifascismo, destinata ad ingaggiare con gli Usa, all’indomani del secondo conflitto mondiale, una competizione segnata dalla divisione del mondo in due blocchi contrapposti.
Allo stesso tempo, col senno di poi, qualcuno ha pensato che l’utilizzo dell’atomica contro il Giappone, mettendo in evidenza il suo micidiale carattere distruttivo, abbia contribuito a consegnare all’umanità un nuovo dispositivo, quello della deterrenza, meritevole di un approfondimento sia sotto il profilo logico sia sotto il profilo etico. Dimostrando, tangibilmente, ciò che non bisogna fare, ciò che bisogna evitare.
La bomba, più di tante predicazioni, da quei due terribili giorni del 6 e del 9 agosto 1945, sui cieli di Hiroshima e Nagasaki, nella carne martoriata del popolo giapponese, ha agito come un presupposto, per quanto paradossale, di pace. Attivando il senso di una responsabilità più ponderata quando le grandi potenze, nei decenni successivi, sono state ad un passo dall’utilizzarla. Contribuendo a sospendere la prospettiva della guerra dal suolo europeo dopo secoli di sangue. Conferendo al conflitto, la cui azione è proseguita incessantemente nel mondo, anche dopo la seconda guerra mondiale, un orizzonte territoriale delimitato.
La bomba, come ogni arma, ma specialmente quella atomica, serve, se serve, non per essere usata, anzi comporta un’ulteriore solidarietà diacronica verso chi verrà, sollecitando azioni capaci di rafforzare la coscienza del pericolo, rendendo più motivato e urgente il progetto di una progressiva riduzione degli arsenali. Sostenibilità del pianeta significa anche questo. Convivenza, cooperazione, pace. Specie dopo i massacri del “peggior secolo nella storia dell’umanità”, almeno nella sua prima parte, tragedie di Hiroshima e Nagasaki comprese.