A nostro parere, la cosa più seria sarebbe andare oltre il Pd, superare nella forma e nella sostanza un partito che ha cessato la sua funzione storica (che non è stata un granché, diciamo, soprattutto nella fase renziana), prefigurando un nuovo, o nuovi raggruppamenti politici. L’ideale sarebbe una formazione di sinistra larga e plurale, di massa e radicata, con ambizioni di governo, che non pretenda di esaurire il campo da sé, ma funga da pivot per la nascita di uno schieramento che abbia in mente un grande progetto di trasformazione del Paese, non solo il piccolo cabotaggio leaderistico.
Visto, tuttavia, che i partiti non si sciolgono per decreto (saremmo in pieno fascismo, nel caso), più realisticamente riteniamo che Zingaretti dovrebbe muoversi decisamente in questa direzione, cioè ricostruire un’alleanza democratica, di sinistra, popolare che si ponga in alternativa secca alla destra e punti al governo. Servirebbe una svolta netta, anticipata da una riflessione profonda sul Paese, sulla storia di questi anni, sulle novità che la sinistra deve affrontare, sui grandi mutamenti sopravvenuti, sulle figure sociali emerse, sul futuro che ci attende, sulle dinamiche internazionali. Una cosa che è possibile rigettando la vocazione maggioritaria, ripensando la politica per quel che è: dibattito, confronto, articolazione dell’iniziativa, creazione di un fondo comune sui cui esercitare e garantire la produttività del conflitto.
In questi anni è mancato proprio questo ABC. La radicalizzazione parolaia affidata sempre più ai social (causa ed effetto del vuoto politico) ha tranciato di netto il filo della mediazione e del dialogo, e punta alla distruzione proprio del fondo comune, del patrimonio morale e intellettuale, su cui in questi decenni si è mossa la politica italiana. L’agire politico dei nostri padri è divenuto un ‘fare’ tecnico-pratico senza alcuna omogeneità e ambizione. Il ‘vuoto’ nasce proprio da questa prassi che non è una prassi, ma solo un daffare praticone che non chiama mai a raccolta le energie del Paese, al più mette in campo personaggi politici (Berlusconi, Renzi, Salvini) pronti a tutto, anche a fare strame delle istituzioni democratiche, pur di strappare un lasso di celebrità e di potere. Di questo dobbiamo liberarci, di questa cosa velenosa chiamata Seconda Repubblica, che oggi potremmo tranquillamente definire il male del Paese (non l’unico).
Il ‘governismo’, l’idea che la politica sia soprattutto esecutivo, e non rappresentanza e conflitto regolato, ha letteralmente messo in ginocchio la democrazia italiana. La convinzione che il tempo debba essere istantaneo, che il ‘fare’ debba predominare sull’‘agire’ anche intellettuale, e che il potere sia solo quello di ‘decidere’ e ‘dividere’, e non quello di creare le basi di una concordia nazionale (pur discorde), questa convinzione (ce lo racconteranno meglio gli storici in futuro) è stata davvero il crinale in cui l’Italia ha perso contatto con la propria identità di Paese capace di puntare sulla mediazione alta piuttosto che sulla rissa bassissima di quattro galletti sgallettati ma ambiziosissimi.
Che fare? L’abbiamo detto, lavorare alla ricostruzione di una base comune, di una sinistra del lavoro, della ricerca, del dialogo e dell’umanità, di un partito o più partiti che sappiano unire, non contendersi seggi del maggioritario a forza di risse, e di una visione democratica e partecipativa del Paese e dell’Europa. Ve lo diciamo (anzi lo ripetiamo): siamo orfani del compromesso storico, dell’idea che servisse una salda cornice costituzionale e una salda unità per regolare il conflitto anche aspro, dell’idea che la salvezza del Paese non fosse in un manipolo di ambiziosi al governo, ma nell’unità del popolo italiano attorno alla sua Costituzione e dell’idea di approfondire in senso ampio e partecipativo la democrazia italiana. Una specie di base comune protetta, riconoscibile, democratica, popolare entro cui scatenare il conflitto senza il rischio di cadere nelle mani del primo fascista di passaggio. Rischio peraltro attualissimo.
L’attacco al compromesso storico venuto dai ‘modernizzatori’ politici e finanche dai covi BR è stato il germe iniziale dello sfacelo in cui oggi ci dibattiamo. Forse Moro e Berlinguer rappresentano l’ultimo atto di un acume politico che non c’è più stato, se non in rarissimi eredi di quell’antico lignaggio. Negli anni successivi, siamo stati intenti solo a inseguire improbabili riforme elettorali, voti maggioritari, Europe liberiste, poli, centrismi, alternative secche, 51%, frontismi, miti personalistici, leaderismi, pubblicità elettorali, esecutivi plenipotenziari, chiacchiere mediatiche, narrazioni stravaganti, ambizioni arraffone di squallidi outsider. La sinistra oggi dovrebbe lavorare per ricostruire una casa distrutta allegramente tra gli strepiti di molti parvenu. Un compito difficile, quasi ingrato, ma indispensabile.
Ne saremmo capaci? Noi speriamo che ce la caviamo. Ma intanto ripartiamo dal trentennale della Bolognina, e apriamo una riflessione su quello che fu il PCI, sulla sua funzione storica e su quanto, di quel partito, oggi sarebbe ancora necessario per ridare corpo e vigore a una politica democratica, popolare, unitaria e non di individui soli, sparsi e disperatamente ambiziosi.