Vaste programme, diceva il generale Charles De Gaulle. La battuta torna alla mente leggendo alcuni interventi suscitati dal Rapporto Prove Invalsi 2019 (presentato lo scorso 10 luglio a Roma, nell’aula dei gruppi parlamentari della Camera, pagine 117). Parterre di discussant qualificatissimo. Non senza, tuttavia, l’eco di alcune tendenze tipiche del dibattito pubblico nazionale – catastrofismo e benaltrismo. Accentuare i problemi, perdendo di vista le loro reali proporzioni, sostenere che la soluzione è sempre un’altra. Specie se si parla di scuola.
Spiega il Rapporto Prove Invalsi 2019 che tra gli studenti che completano la secondaria superiore la quota che mostra limiti di comprensione del testo è “del 22% nel Nord Ovest, del 23% nel Nord Est, del 34% nel Centro, del 46% nel Sud, del 50% nel Sud e Isole” (p. 9). Sapere che mediamente un terzo dei ragazzi, uno su tre, presenta questi deficit nella lingua madre, non è una buona notizia. Ma questo aspetto merita forse di essere associato ad altri convergenti nel segnalare una scarsa propensione del nostro Paese verso la lettura. Non solo dei giovani. Siamo di fronte a qualcosa di più ampio, sia dal punto di vista delle tendenze sociali in atto, sia sul piano storico.
Basta dare un’occhiata ai dati Istat sulla lettura di libri in Italia e confrontarli con quelli degli altri Paesi europei. La Federazione Italiana Editori Giornali, in data 29 maggio 2019, in ordine ad un calendario di rilevazioni svolto dal 9 aprile 2018 al 31 marzo 2019, ha espresso soddisfazione per “una sostanziale stabilità per i quotidiani (-0.4%)”. Ancora secondo l’Istat, l’Italia è fanalino di coda in Europa, nella lettura dei giornali on line, anche perché al di sotto della media europea per l’uso di Internet. Insomma, una situazione nella quale i risultati Invalsi sono un sintomo, preoccupante, di qualcosa di più profondo.
Il dato sull’autonomia e consapevole padronanza della lingua italiana, da parte di un giovane che lascia il sistema scolastico dopo 13 anni, è un indubbio limite ma non è l’unico. Vi è anche quello della qualità degli apprendimenti, unito all’equità fra scuole e classi nel confronto fra diverse zone del Paese.
Senza pretendere di aggiungere qualcosa di rilevante, viene da osservare come, in questione non sia tanto il curricolo degli ultimi anni, quanto i ritardi maturati da un contesto di cultura nel corso degli ultimi secoli. Non bisognerebbe mai perdere di vista alcuni elementi basici, di fondo. Ne ricordo uno: dopo l’Unità, conseguita il 17 marzo 1861, il nostro Paese presentava tassi di analfabetismo intorno al 75%; in modo analogo alla Spagna; mentre nello stesso periodo, in Germania, come in altri Paesi del nord Europa, la percentuale era intorno al 20%.
Veniamo da una storia: là la Riforma, qui la Controriforma. E non vi è dubbio che, al di là degli aspetti religiosi, ma anche in relazione ad essi, la Riforma abbia favorito un processo di acculturazione e alfabetizzazione. Se instilli nel popolo (dei fedeli) l’idea che ci sia salva attingendo alla parola, quella parola bisogna (essere in grado di) comprenderla. Poco importa che Martin Lutero, quel mercoledì 31 ottobre 1517, vigilia di Ognissanti, secondo una tradizione non precisamente documentata, abbia affisso le sue famose 95 tesi sulla porta della Schloßkirche di Wittenberg, cittadina sull’Elba della Sassonia. Se non le affisse, le diffuse. Non senza accompagnarle con un’intuizione: dedicarsi all’opera di traduzione in tedesco della Bibbia, giovandosi della stampa a caratteri mobili, l’invenzione gutenberghiana di pochi decenni precedente, facendone un strumento di iniziazione alla lettura. La comunità terrena dei lettori nasce anche grazie a queste motivazioni ultraterrene. È un punto che segna il discrimine tra una cultura che si affida all’intermediazione dei chierici e una meglio orientata verso l’autonomia della persona.
Pochi decenni più tardi, Comenio, in campo pedagogico, afferma, precocemente, il carattere laico dell’istruzione, il suo valore pubblico, per una formazione fondata sulla responsabilità della persona. Al contempo non bisognerebbe mai dimenticare che la scuola elementare obbligatoria in Prussia risale al 1763, in Austria al 1774. Un secolo più tardi, nel 1877, con la legge Coppino, in Italia viene attribuito allo Stato il compito di dar vita alla scuola primaria. Non si può appiattire tutto nel presentismo, vi sono processi che si dispongono nel tempo, anzi, nella longue durée.
Dai dati Invalsi, oltre a quello sulla lingua italiana, emergono altri aspetti problematici, sottoposti a verifica, in Matematica e Inglese, nel confronto tra le diverse aree del Paese, tra scuole e tra classi della stessa scuola, con migliori livelli al nord rispetto al sud. Sino all’evidenziazione di una iniquità del sistema. Nel primo ciclo d’istruzione, ad esempio, la variabilità dei risultati tra scuole e tra classi risulta non solo consistente, anche più alta al nord e al centro, “così come sono più alte le percentuali di alunni con status socio-economico basso che non raggiungono livelli adeguati nelle prove” (p. 10).
Spiega ancora il Rapporto Prove Invalsi 2019 che nei tre gradi di scuola oggetto delle rilevazioni che riguardano il primo ciclo d’istruzione e in tutte e tre le materie testate, la componente di variabilità tra scuole e tra classi è “maggiore nell’Italia meridionale e insulare rispetto all’Italia centrale e settentrionale” (p. 14). Sicché: il sistema scolastico nel mezzogiorno non solo è meno efficace, è “anche meno capace di assicurare agli alunni le stesse opportunità educative” (p. 14). Alla luce di questi dati l’autonomia differenziata è palesemente immotivata.
Altra questione, la mobilità intergenerazionale, rispetto al livello d’istruzione raggiunto, relativamente bassa. L’81% degli adulti nella fascia d’età 25-64 “i cui genitori non hanno un titolo di studio d’istruzione secondaria superiore ha terminato gli studi allo stesso livello dei genitori (media OCSE: 37%), mentre solo il 19% è riuscito a raggiungere un livello più alto” (p. 31).
Da un lato, dunque, una disomogeneità nei risultati tra le diverse aree geografiche del territorio nazionale che fa riemergere una storica asimmetria nord-sud; dall’altro un’insufficiente mobilità sociale che conferma uno stato di diseguaglianza nella fruizione del bene educativo. Persiste la questione meridionale, l’ascensore sociale risulta bloccato.
Che fare? Intanto prendere atto che, nell’arco di un paio di generazioni, siamo passati dal pennino intinto nell’inchiostro alla biro, e che, in esito della terza rivoluzione industriale, siamo nelle condizioni di sperimentare la scrittura e la lettura nel web. Lasciando da parte apocalittici e integrati, si tratta di capire quali possano essere le nuove modalità per arrivare al mondo digitale nel quale sono immersi i giovani. Stabilendo un rapporto positivo tra nativi e migranti digitali. Del tutto incongrue le visioni colpevolizzanti. Né realistici gli auspici, che pure non mancano, di un ritorno al passato. Serve immaginare, piuttosto, una pluralità di strumenti, lezione tradizionale compresa, capaci di interpretare la stagione educativa che si è aperta tra sfide, incognite e nuovi rischi.
Tra quanti hanno colto questa esigenza, sotto il segno dell’innovazione, Tullio De Mauro, mancato il 5 gennaio 2017, è stato tra i primi a comprendere il rilievo che può avere una metodologia, tra le altre, come quella della cosiddetta flipped classroom, la classe capovolta, la lezione o la videolezione a casa, i compiti a scuola. Un modo per responsabilizzare gli alunni, per sviluppare in loro l’autonomia necessaria per rendersi maggiormente artefici delle strategie di apprendimento.
Non sempre ci si rende conto che i programmi, tradizionalmente intesi, non esistono più; da tempo sono vigenti Indicazioni Nazionali per il primo ciclo (in diverse versioni, l’ultima, in ordine di tempo, del 22 febbraio 2018, rielaborazione del documento del 4 settembre 2012, D.M. n. 254 del 16 novembre 2012) e per i Licei (Legge 53/2003 e D.Lgs. 226/2005) insieme alle Linee guida per gli Istituti tecnici e professionali (Legge 40/2007). Non c’è più il programma, rigido, prestabilito, uniformante, ministeriale; sono piuttosto in atto i presupposti, sulla base delle Indicazioni Nazionali e delle Linee guida, per una proposta didattica orientata a cogliere una domanda formativa in divenire.
Poi ci sono le Raccomandazioni europee che, non a caso, da oltre un decennio, sollecitano lo sviluppo della cultura digitale, suggerendo dimestichezza e spirito critico. Per difendersi dalle fake news, cosa che non sempre accade a tanti adulti, ma anche per avere una condotta appropriata nella Rete, come non accade ad altrettanti adulti, se non di più. Dalla galassia Gutenberg, quella, come si è visto, del primato del libro a stampa, siamo entrati nella galassia Marconi, come sosteneva Marshall McLuhan, dei nuovi strumenti informatici. Sotto la vigilanza del corpo docente e degli organi collegiali, la scuola, ragionevolmente, fa bene a servirsene, come già è stato con il pennino e con la biro.
Non senza una duplice motivazione sociale: attraverso i nuovi strumenti digitali si tratta, da un lato, di arricchire l’offerta formativa, ammodernando la funzione dei libri di testo e la loro sostenibilità economica, dall’altro di affrontare il tema del loro ingombro, del loro peso, cercando di dare riscontro all’auspicio di alleggerire gli zaini che gravano sulle spalle di tanti studenti. Per non dire di una maggiore attrattività, il che non significa minore serietà, ma maggiore efficacia, nel fare scuola, sviluppando azioni di contrasto alla dispersione. Situazione non fisiologica, quella della dispersione, che, nel nostro Paese, arriva alla misura del 14.5%, mentre dovrebbe essere sotto il 10% entro il 2020. Inoltre non va trascurata la tendenza all’aumento degli Elet (Early Leaving from Education and Training) o dei Neet (Not in Education, Employment or Training). Né studenti, né occupati, né in formazione. Con una spiccata tendenza a lasciare l’Italia. Cala l’immigrazione, aumenta l’emigrazione.
Oggi è di moda parlare di ambienti di apprendimento e c’è il rischio di assecondare una tendenza retorica fatta di belle parole, buoni propositi, ottimi auspici, ma scarsa incidenza sulla realtà; per questo bisogna essere molto concreti, dando alla questione un profilo sostanziale, vale a dire architettonico, impiantistico, tecnologico, inerente all’efficienza energetica, per spazi segnati, in primo luogo, dai valori sociali della salute e della sicurezza.
Gli ambienti di apprendimento, considerati senza enfasi, con sobrietà, possono servire per migliorare l’apprendimento di Italiano, Matematica e Inglese? Bisogna provarci. Lo scorso 29 luglio è stato siglato un accordo per l’edilizia scolastica tra Miur, Banca Europea per gli Investimenti, Banca di Sviluppo del Consiglio d’Europa e Cassa Depositi e Prestiti, per 1,5 miliardi di euro, a favore di interventi di ristrutturazione, messa in sicurezza, adeguamento alle norme antisismiche, efficientamento energetico e costruzione di edifici scolastici. Sarebbe opportuno uno sviluppo coordinato tra Ministero, scuole ed enti locali, riprendendo il filo della Legge 23 del 1996, la quale nel primo ciclo affidava l’edilizia scolastica ai Comuni, nel secondo ciclo alle Province o alle Città metropolitane, unendolo al nuovo Regolamento sulla gestione amministrativo-contabile delle scuole, il Decreto Interministeriale 28 agosto 2018, n. 129, entrato in vigore il 17 novembre 2018, nel quale sono le premesse per un rilancio della collaborazione tra autonomie scolastiche e autonomie locali in questo settore. L’autonomismo utile.
Bisogna cominciare a immaginare una nuova logistica per la scuola dei prossimi decenni, trasformando le aule in qualcosa di più accogliente e favorevole per il protagonismo cognitivo degli studenti. Qualche tempo fa si diceva: il futuro si gioca in classe. Oggi si potrebbe dire: il futuro si gioca oltre la classe.
Ovviamente, è d’obbligo precisare che, anche in questo caso, soprattutto in questo caso, occorre diffidare delle semplificazioni, perché la scommessa educativa ha a che fare con il fattore umano, con la centralità della relazione tra chi insegna e chi apprende, in ordine a ciò che passa, e a come passa, nella reciprocità. E’ evidente che la scuola debba essere palestra di conoscenze; altrettanto ovvio che un modo appropriato per considerarle non è più quello meramente trasmissivo, ma capace di sollecitare un contributo attivo e inclusivo.
Il lavoro di Invalsi può essere oggetto di considerazioni critiche, ma non bisogna mai confondere lo strumento con la realtà che è chiamato a sondare. In fondo è come il termometro: si limita a registrare la temperatura. Bene che i problemi vengano alla luce, perché possano essere predisposte le politiche pubbliche necessarie per affrontarli, per contrastare le diseguaglianze, per una scuola che faccia corrispondere ciò che dice a ciò che fa.
Risultati scolastici così difformi da una scuola all’altra e da una classe all’altra sono in contraddizione con una Repubblica che ha il compito di rimuovere gli ostacoli, anche in relazione al diritto all’apprendimento e al successo formativo di ognuno, per il pieno sviluppo della persona umana. Occorre promuovere una maggiore mescolanza sociale, superando le classi o le sezioni distinte dal punto di vista dell’estrazione familiare, evitando di riprodurre nella scuola lo schema delle divisioni sociali. Il fatto che il Rapporto Prove Invalsi 2019 abbia assunto un rilievo nel dibattito pubblico può contribuire ad accrescere la coscienza dei problemi. Ma perché il dibattito abbia un senso, dopo, servono le risposte di merito.