Che sinistra vogliamo essere? Quella che propugna certezze assolute o che sa coltivare il dubbio? Quella che si limita alle enunciazioni di principio o è capace di porsi al principio di una ricerca nuova, con spirito sperimentale, critico, riflessivo? Senza perdere mai di vista la sostanza, i nodi strutturali, le questioni di fondo.
Parliamo di scuola, cercando di evitare l’ennesimo surf sulla superficie dei problemi. Piccolo flashback: nel 1948 l’assemblea generale dell’Onu promuove la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. In modo pressoché contestuale, dal 1° gennaio 1948, viene promulgata la Costituzione italiana, il cui articolo 3, quello di “non discriminazione”, relativo all’“eguaglianza sostanziale”, nel suo secondo comma, ispirato da Massimo Severo Giannini, sostiene che: “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
A sua volta, il primo comma dell’articolo 34 è tanto breve quanto netto. Semplicemente: “La scuola è aperta a tutti”. Nel 1959 l’Onu emana la Dichiarazione dei Diritti del Fanciullo. Il 6 marzo 1998, più di vent’anni fa, la legge 40 stabilisce l’obbligo scolastico anche per i minori stranieri. Un obbligo oltre che un diritto. Attenzione: la Bossi-Fini, che è del 2002, non contraddice questo punto. Il rischio, oggi, è di fare dei passi indietro, anche rispetto alla Bossi-Fini. Più di recente vi sono state delle Linee guida, quelle del 2006 e del 2014, integrate nel 2017. Nel 2015 è stato promosso un Osservatorio che ha prodotto un documento dal titolo Diversi da chi? Sull’obbligo – anche per i minori stranieri – vigilano due ulteriori presidi normativi: l’articolo 731 del Codice penale; il comma 4 dell’articolo 2 del decreto ministeriale 13 dicembre 2001, numero 489.
Detto questo, vogliamo affrontare il tema della diseguaglianza nel nostro Paese? Allora, per prima cosa, evitiamo le contrapposizioni di comodo tra sovranismo e una globalizzazione solo mercati, liberismo e business as usual. Diamo un’occhiata alle idee del mondo, per esempio all’Agenda Onu 2030 per lo sviluppo sostenibile (New York, 25-27 settembre 2015), sottoscritta da 193 Paesi, il nostro compreso, la quale prevede 169 target per 11 obiettivi. In particolare, il 4° dice: Fornire un’educazione di qualità, equa ed inclusiva, e opportunità di apprendimento per tutti. Auspici, presupposti, lontani anni-luce dai “cattivi pensieri” che stanno logorando la qualità del dibattito pubblico, non solo a destra.
L’Agenda Onu contribuisce ad evidenziare alcuni dati. L’iscrizione nelle scuole primarie nei Paesi in via di sviluppo ha raggiunto il 91%; ma 57 milioni di bambini ne sono ancora esclusi. Più della metà dei bambini non iscritti a scuola vive in Africa subsahariana. Il 50% dei bambini che possiedono un’età per ricevere l’istruzione primaria, ma che non frequentano la scuola, vive in zone colpite da conflitti. Nel mondo 103 milioni di giovani non possiedono capacità di base in lettura e scrittura, di cui oltre il 60% donne.
Si dirà: anche nel Paesi che si presumono “avanzati” non mancano fenomeni regressivi, come l’analfabetismo di ritorno, ovvero un’alfabetizzazione con deficit rilevanti. Secondo un studio Eurydice, relativo agli anni 2009/2014, l’Italia risulta tra i Paesi con la più alta percentuale di dispersione in Europa e, al contempo, con le più forti disparità tra tassi di abbandono, maschili e femminili, una percentuale del 20,2% per i maschi e del 13,7% per le femmine. Attualmente: 16,6% per i ragazzi; 11,2% per le ragazze.
Le statistiche più recenti evidenziano che la percentuale di giovani tra i 18 e i 24 anni con al massimo un diploma di scuola secondaria inferiore, che abbandonano precocemente l’istruzione e la formazione, nella media europea è al 10,6%; in quella italiana al 14%; il traguardo fissato dalla Strategia Europa 2020 inferiore al 10%. La percentuale di persone tra i 30 e i 34 anni in possesso di un diploma d’istruzione superiore – universitario o equivalente – è in Europa al 39,9%, in Italia al 26,9%; il traguardo europeo almeno il 40%. Rispetto ai 27 Paesi dell’Unione Europea, l’Italia è penultima, davanti solo alla Romania con il 25,6%.
Certo, l’Italia si trascina uno storico ritardo, non solo rispetto al Pil, il prodotto interno lordo, anche rispetto al Pie, il prodotto interno educativo. All’indomani dell’Unità d’Italia, quasi l’ottanta per cento della popolazione era analfabeta; mentre, nell’area germanica, il processo di acculturazione ha beneficiato dell’impulso venuto dal protestantesimo, con la traduzione della Bibbia da parte di Lutero, incentivo a dotarsi di una capacità di lettura autonoma; poi, in Prussia, la scuola elementare obbligatoria, dal 1763, in Austria dal 1774; da noi occorre attendere la legge Casati nel 1859, estesa al Regno d’Italia a seguito della conseguita unificazione nel 1861, con l’istruzione obbligatoria e gratuita per i primi due anni delle scuole elementari, ma non senza resistenze, soprattutto da parte di un sistema patriarcale poco propenso a rinunciare al lavoro dei figli.
Ancora: il tasso di occupazione dei neodiplomati, in relazione al livello di istruzione raggiunto, in età compresa tra i 20 e i 34 anni, con conclusione degli studi da uno a tre anni prima dell’anno di riferimento, in Europa è all’80,2%, in Italia al 55,2%; il traguardo europeo all’82%. Negli ultimi dieci anni l’Italia ha realizzato dei progressi nella riduzione degli abbandoni scolastici e formativi precoci, scesi dal 20% del 2007 al 14% attuale; ma, per la prima volta, nell’ultimo anno, il trend ha subito una fase di arresto ed è addirittura lievemente aumentato (+0,2%). Insomma; siamo ancora ben lontani da un contenimento della dispersione sotto il 10%; se miglioriamo, lo facciamo troppo lentamente.
Ci posizioniamo, infatti, al quinto posto, in Europa, per numero dei cosiddetti Early Leavers o Elet (Early Leaving from Education and Training) o Neet (Not in Education, Employment or Training), al di sopra del Portogallo, della Romania, della Spagna e di Malta. Nel 2016 i tassi di occupazione delle persone tra 25 e 64 anni con titolo di studio elevato (laurea e titoli assimilati) erano superiori di quasi 30 punti percentuali rispetto alle persone con bassa istruzione (con al più un titolo secondario inferiore), l’80% contro il 51%. Sempre nel 2016 la spesa pubblica per l’istruzione, sia in rapporto al Pil (3,9% comparato alla media UE del 4,7%), sia in rapporto alla spesa pubblica complessiva (7,9% Italia; 10,2% UE) si è confermata tra le più basse dell’Unione Europea.
Secondo il rapporto Istat 2018, nei processi di trasmissione della conoscenza, l’istruzione continua ad avere un ruolo decisivo. Ma allo stesso livello di scolarizzazione non corrispondono conoscenze e competenze analoghe tra Paesi e, all’interno di questi, tra regioni, scuole, classi, maschi e femmine, singoli allievi. I livelli di competenze degli studenti italiani sono molto variabili in relazione al tipo di scuola frequentata: fenomeno, questo, strettamente connesso alle condizioni socio-economiche familiari. Con riferimento agli studenti della stessa età (iscritti al secondo anno delle superiori), i dati mostrano la gerarchia tra istituti scolastici in termini di competenze di base acquisite dagli studenti; a questa va associata una persistente sperequazione di tipo territoriale che conferma un divario tra i contesti locali.
Il peso delle origini familiari costituisce un fattore di diseguaglianza ancora non adeguatamente corretto dal sistema scolastico e formativo. La strada dei figli appare tracciata già prima dall’orientamento curricolare nelle scuole superiori. Quello seguito dai diplomati nella fascia di età tra i 25 e i 34 anni, condizionato, in misura notevole, dalla famiglia d’origine; nel 2016, quasi il 60% dei diplomati liceali avevano genitori con titolo universitario, il 30% genitori con diploma secondario, appena il 21% genitori con al più la licenza media. Recentemente il Censis, nel suo 52° Rapporto sulla situazione dell’Italia, ha sottolineato come il Belpaese si collochi all’ultimo posto nella graduatoria europea della percentuale di coloro che hanno migliorato la propria situazione economica rispetto a quella della famiglia di origine, registrando una percentuale del 23% a fronte di una media UE del 30%.
Il futuro comincia in classe. Lì sono le opportunità. Lì le radici della mancanza di equità nel sistema. Se non si correggono queste distorsioni, rimettendo in moto l’ascensore sociale, servirà a poco continuare a produrre discussioni su sovranismi & globalizzazione o su nuovi redditi di cittadinanza che rischiano di assomigliare ai vecchi bonus. Piuttosto servono ricerca e sperimentazione, personalizzazione dei curricoli, strategie per il recupero. Vale a dire un sistema che sia davvero a fondamento del successo formativo di ognuno. Da ciascuno secondo le sue capacità. A ciascuno secondo i suoi bisogni. Anche i nodi della mancata crescita, della questione sociale e dell’aggravamento delle nuove povertà affondano le loro radici nel bisogno di investimenti credibili, di carattere economico ma non solo, nel capitale umano. La visione caritatevole, in tempi di sin troppo esibita disparità, non è una cattiva cosa, solo che non basta. Occorre mettere mano, convintamente, ai nodi strutturali della diseguaglianza. La scuola non esaurisce il compito, ma lo prepara, almeno in parte.