Le due forze che sono approdate al governo del Paese, M5s e Lega, nel voto del 4 marzo sono emerse come le migliori perdenti. Nessun vincitore. Nella crisi della democrazia italiana siamo passati dall’equivoco di una legge elettorale proporzionale vissuta come maggioritaria a un governo di coalizione interpretato in forme neo-presidenzialistiche, in particolare da parte di un partito che ha ottenuto il 17,4%. Col 17,4% Matteo Salvini è riuscito a dare le carte e a tenere il mazzo. Al traino l’alleato Cinquestelle.
Sia chiaro: la tendenza oligarchica, élitaria, nel nostro Paese non nasce oggi, e neanche circa dieci anni fa, a seguito del fortunato libro di Stella e Rizzo. In ossequio agli anglicisimi si dice establishment. Gaetano Mosca, più di un secolo fa, descriveva il senso della classe politica (e il pensiero conservatore dei Pareto e dei Michels, sostanzialmente, altrettanto). Pier Paolo Pasolini parlava del Palazzo (con la “p” maiuscola). Alberto Ronchey di una nomenklatura (con la kappa). Sicché, più che di una novità, si tratta di qualcosa di endemico, indotto dai reciproci cattivi rapporti tra società e Stato, dall’atavica diffidenza verso il secondo all’immacolato autocompiacimento della prima. Un rapporto messo a dura prova dalla crisi. Non quella che si dice sia alle nostre spalle: quella che, sul piano sociale, è ancora davanti a noi.
Non v’è dubbio che la situazione emersa dal 4 marzo sia il risultato, per certi versi speculare, dell’insieme degli errori, politici e programmatici, che hanno caratterizzato l’ultima legislatura, in particolare da parte di chi ha avuto in sorte la maggiore responsabilità di governo. L’equivoco di fondo: presumere che quella responsabilità discendesse dalle oniriche visioni della vocazione maggioritaria, e non, concretamente, dal profilo della coalizione Italia bene comune; cioè dal voto del 24-25 febbraio 2013; quel disconoscimento è la matrice di tutti i successivi autoinganni, compresa la frattura con la sinistra, vale a dire esattamente il contrario di ciò che occorreva.
Ma il fatto che l’alternativa, il 4 marzo, non sia stata giudicata credibile, non rende meno grave la situazione attuale. Per capire la natura dell’oggetto non meglio identificato, lo strano ircocervo alla guida del Paese, per prima cosa occorre aprire gli occhi sul fatto che una destra reazionaria è sempre esistita. Solo che da minoritaria si è trasformata nell’azionista di riferimento della compagine di governo. Se qualcuno ha dei dubbi, ascolti l‘intervento che circola in rete svolto dal neo ministro Lorenzo Fontana a un congresso della Lega. Integralismo preconciliare. Un distillato della nuova Vandea nella demonizzazione di tutto ciò che va oltre l’orticello dell’identità. Il termine che fissa il discrimine: un sovranismo inteso non come tutela degli interessi nazionali, ma come chiusura a ogni rapporto con l’altro.
So bene che non si può confondere l’imprescindibile dimensione popolare, che non può non avere la vita politica, con il populismo. Ma è stato proprio il neo presidente del consiglio dei ministri, nel suo intervento alle Camere, ad intestare all’attuale governo il concetto, assumendolo come una professione di fede. Sovranismo e populismo, insieme, non sono una novità, ma la miscela che è a fondamento dell’internazionale della paura, da Trump alla Brexit, dal lepenismo al gruppo di Visegrád. Il 4 marzo consegna all’Italia questo, con la specificità dell’inadeguatezza del progetto di governo che ha segnato la scorsa legislatura, in relazione a una forte attesa popolare di protezione.
Siamo dentro una tendenza che il voto delle amministrative di domenica conferma, al di là delle singole problematiche locali. La Lega cannibalizza il centrodestra; ma trova spazio anche nei confronti del M5s. Il doppio forno ora premia Salvini. Nel sistema tripolare bipolarizzato il polo più debole o rompe gli schemi, quelli segnati da una lunga serie di sconfitte, o è destinato a subire la somma degli altri due.
Se scorro il contratto di governo, quello scritto al Pirellone – e non si capisce perché lì vista l’attenzione che è giusto dedicare all’appropriatezza nell’utilizzo delle risorse pubbliche – nessuna sorpresa sulla linea tenuta da Salvini negli ultimi giorni a proposito della richiesta di attracco della nave Aquarius con 629 migranti, compresa la stucchevole disputa con Malta. Tutto noto, scritto, annunciato. Non è un problema solo umanitario, ma anche politico, nel senso più pieno, di visione della cosa pubblica. Come dimostra il gesto della Spagna di Pedro Sánchez. Per chi si interroga sulla differenza tra destra e sinistra, ecco una risposta. Chi pro tempore fa il ministro dell’Interno ha tutti gli strumenti per agire, alla fonte, alla radice, senza prendersela con chi, su un barcone, chiede soccorso. E invece, nella commistione del duplice ruolo, istituzionale e politico, si è preferito lucrare il massimo possibile, a urne aperte.
È evidente che, anche in considerazione dell’affastellarsi delle tante questioni economiche e dei loro costi, dalla flat tax al reddito di cittadinanza, come si evince dalle dichiarazioni del ministro competente, professor Giovanni Tria, almeno per il momento, la partita, Lega e M5s, se la giocano sui temi securitari. Ciò che tiene insieme l’alleanza, il punto di congiunzione tra le due visioni, è quello lì. Non si tratta neanche di giustizialismo propriamente inteso, quello che, manomettendo l’equilibrio tra i poteri e piegando lo Stato di diritto, propende per l’ordine giudiziario. Nel contratto non c’è la sottolineatura di un maggior ruolo per la magistratura. C’è l’idea di uno Stato di polizia.
Di qui i “campi di detenzione”, i “centri per i migranti da rimpatriare”, “blindati”, come è stato precisato, in ogni regione, per almeno 18 mesi. Sempre scorrendo il contratto ci si può imbattere in affermazioni come questa: “In considerazione del principio dell’inviolabilità della proprietà privata, si prevede la riforma ed estensione della legittima difesa domiciliare, eliminando gli elementi di incertezza interpretativa (con riferimento in particolare alla valutazione della proporzionalità tra difesa e offesa)…”. Quindi: la reazione non proporzionata al rischio eventuale, ma, secondo il titolo di una rivista di Totò, a prescindere. Sino alla privatizzazione della pena di morte.
Per l’insieme di questi motivi, la ragionevolezza avrebbe dovuto consigliare quantomeno di provare a tenerli divisi, M5s e Lega. Invece si è addirittura auspicato che si aggregassero. Il famoso “tocca a loro”, con provvista di pop corn, senza toccare palla.
Bisogna accuratamente evitare contrapposizioni di comodo. Di qua i virtuosi; di là i reprobi. Di qua fantomatici fronti repubblicani; di là i barbari. Tutta roba che non serve. Se la sinistra vuole ripartire, cerchi altre strade, prima di tutto, di lettura della società: contrasto alle diseguaglianze, la questione democratica insieme alla questione sociale. Non ci sono più alibi, siamo alla fine dei giochini, dei posizionamenti, dei tatticismi. Servono legami sociali, valori e progetti. Se no, c’è l’angolo della testimonianza minoritaria. La qualità della democrazia non dipende da loro: ma da una opposizione realmente autorevole. Lavorando sin d’ora per una sinistra non delle enunciazioni di principio, ma capace di delineare, con tenacia, una visione, senza aver timore di mostrare al proprio popolo la fatica dell’impegno che serve. Il più lontano possibile da ogni sistema di potere, il più vicino possibile alla
preparazione di una credibile alternativa di governo.