Pochi obiettivi polemici sono stati oggetto di attacchi così ossessivi e ricorrenti come lo Stato, specialmente nella sua variante di Stato sociale, e di tutto ciò che lo riguarda in termini di dimensioni pubbliche, amministrazione pubbliche, partecipazioni economiche, beni comuni ecc. Lo Stato è stato dipinto come fonte di sprechi, di inefficienze, di oppressione fiscale nei confronti dei cittadini. Un attacco mirato a minare le basi del patto sociale alla base della nostra Costituzione nella quale si legge, fra le altre cose, che “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Non a caso si accosta spesso all’intuizione del fare grande il welfare state a una figura quale quella di Olof Palme, edificatore di un sistema – la socialdemocrazia scandinava – oggi non esente da crisi, ma ancora preso a esempio da chi non abbia mai vissuto nulla di simile. Non ultimo Bernie Sanders, il senatore socialista statunitense, sfidante di Hillary Clinton alle primarie democratiche del 2016, che ha ripetutamente magnificato il sistema universalistico “dalla culla alla tomba” presente nei paesi del Nord Europa come modello moralmente giusto ed economicamente efficiente. Non è un caso che tanta parte dell’edificazione del Welfare State si debba al lavoro politico di un uomo, come Palme, affascinato durante gli studi dall’America Latina e dai rivolgimenti lì avvenuti, poi fine tessitore di un rapporto di vicinanza con Cuba. L’idea della necessità di costruire una democrazia più integrale di quella meramente istituzionale è chiaramente foriera del tentativo di giungere a una qualche forma di democrazia economica. Certamente, se Palme, Brandt e Kreisky hanno potuto edificare una forte socialdemocrazia è stato grazie a una situazione internazionale di equilibrio (la Guerra Fredda vista da un’altra prospettiva) fra sistemi alternativi e grazie alla sostanziale ricezione, all’interno del dettato liberale, di istanze socialiste. Il sistema di Bretton-Woods, in vigore dalla Conferenza del 1944 fino alla crisi negli anni ’70, contemperava le esigenze del mercato libero e di una statualità presente, consentendo margini di implementazione di quella dottrina keynesiana che tutti oggi conosciamo sintetizzata, con una utile volgarizzazione, nel suggerimento di far scavare e riempire buche di sabbia ai disoccupati per occuparli, usando denaro pubblico per contrastare le cicliche crisi del capitalismo attraverso una politica espansiva. I trenta gloriosi che hanno permesso all’Europa di non stare “né di qua né di là” dalla cortina di ferro.
La fine di questo periodo di “compromesso” fra democrazia e capitalismo, fra Stato e mercato, ha fatto sì che le diseguaglianze aumentassero al punto da rendere impossibile proprio l’applicazione dell’Articolo 3, causando inefficienze economiche e drammi sociali, primo fra tutti la perdita del futuro: infatti l’ingiustizia come sistema causa il blocco dell’ascensore sociale, la mortificazione delle migliori ambizioni umane, la speranza in un avvenire prospero per sé e le future generazioni. La dittatura del mercato, e in particolare dei mercati finanziari, il ritirarsi dello Stato come attore di perequazione e redistribuzione, ha fatto sì che si creasse un eterno presente. Infatti, lo Stato per sua natura è duraturo: può investire nel futuro, e questo incide anche nel tipo di investimenti che può fare. Ad esempio in istruzione, in riqualificazione ambientale ed energetica e messa in sicurezza del territorio, in ricerca di base ed innovazione: tutte attività che non hanno un ritorno immediato e quindi non giudicate appetibili dal privato il cui obiettivo è il profitto ma delle quali il privato si avvale. È di Mariana Mazzucato nel suo “Lo Stato innovatore” (2014) il famoso passaggio che recita: “Non esiste una singola tecnologia-chiave nell’Iphone che non sia stata finanziata dal pubblico”.
Infatti spesso il privato si comporta da “passeggero clandestino” (E. Laurent, 2017): si avvale della cittadinanza istruita dallo Stato, dei servizi che esso offre – dai trasporti alla nettezza urbana ecc. – si avvale della ricerca che esso finanzia ma senza restituire in proporzione: questa è la tipica dinamica della “privatizzazione dei profitti e della socializzazione delle perdite”. Lungi dall’essere la sanguisuga che è stata dipinta, lo Stato spesso elargisce ricchi finanziamenti alle imprese in difficoltà, salvo poi esse delocalizzare in luoghi dove il costo del lavoro è comunque inferiore o non migliorare le condizioni del lavoro quando ricominciano a fare utile.
In questo senso rimane sempre da chiedersi che fine faccia la retorica sulla meritocrazia quando, non solo le condizioni di partenza fra i supposti “competitori” siano così impari, ma addirittura quando le stesse banche che hanno causato una crisi finanziaria mondiale sono state salvate dai soldi pubblici e nessuno dei principali responsabili ha scontato nemmeno un giorno di reclusione per le frodi perpetrate. Il titolo originale del testo di Mazzucato è in questo senso emblematico: “The Entrepreneurial State”, lo Stato imprenditore. Lo Stato, cioè la politica, possono intervenire in economia non solo sanando situazioni di crisi e ineguaglianza, ma anche per dare un indirizzo, avendo una strategia, in sintesi programmando sviluppo. Il che non significa sostituirsi al ruolo degli imprenditori e degli attori economici privati, ma svolgere una funzione senza la quale l’economia di mercato, come la storia ha dimostrato da ultimo nel 2008, crolla su se stessa. L’aumento vertiginoso delle diseguaglianze ha consegnato alle presenti generazioni un sistema nel quale il dinamismo economico è frenato, lo sviluppo umano impedito e lo sviluppo sostenibile impossibile da perseguire.
L’ideologia della fine dello stato mostra oggi in questo senso tutti i suoi limiti e per questo la sinistra può avere buon gioco a riaffermare che il Re è nudo. Gli Stati esistono ancora e anzi hanno avuto un ruolo chiave nel disegno di globalizzazione nel quale noi tutti viviamo. Sebbene molti abbiano sostenuto che i sistemi sociali di protezione siano oggi troppo costosi, la verità è che il capitalismo finanziario sregolato è assai più oneroso e a pagarlo sono sempre i cittadini e la classe media: secondo il Fondo Monetario Internazionale (che non è esattamente il centro studi del PCUS) da quando i governi hanno liberalizzato la finanza, nel periodo 1970-2007, ci sono state 124 crisi bancarie sistemiche, 208 crisi valutarie e 63 crisi di bilancio. Dati che ci permettono di capire con impatto immediato che l’instabilità è divenuta una caratteristica tipica e costitutiva del capitalismo contemporaneo e che l’unico attore in grado di porvi rimedio è proprio la politica per mezzo del potere pubblico e collettivo. D’altro canto non è affatto vero che lo Stato non abbia potere di intervenire in economia, prova ne è che lo abbia fatto con solerzia negli ultimi trent’anni. Come hanno sostenuto Fazi e Mitchell (2017) vi è stato un “interventismo neoliberista dello Stato”, che ha liberalizzato i mercati di beni e capitali, privatizzato le risorse pubbliche e i servizi sociali, ridotto i diritti dei lavoratori, represso il dissenso verso queste politiche, abbassato le tasse sui ricchissimi, sui grandi capitali e le multinazionali. La lista sarebbe ancora lunghissima ma il punto sembra essere: se lo Stato ha operato per l’interesse di pochi privilegiati, esso può operare anche per l’interesse dei molti, dei ceti medi e popolari.
L’altra faccia della medaglia del ritiro dello Stato è infondo esattamente quel nazionalismo becero e sconfinante nella xenofobia divenuto così tristemente attuale. Infatti, come sosteneva Polanyi le società fondate sulla concorrenza di mercato sono innaturali e alla lunga uomini e donne cercano istintivamente protezione: se non la trovano nello Stato sociale finiscono per trovarla nei fascismi, nelle destre estreme, nelle identità religiose, tradizionali, nazionali da contrapporre a dei nemici ritenuti tali in quanto “diversi”. Eppure aver lottato per Carte costituzionali come la nostra, sulla quale edificare la Repubblica, dovrebbe restituire ancora il senso dell’essere orgogliosi di una società e di un vivere comune fondato su incrollabili valori di solidarietà ed eguaglianza. In questo senso, tornare all’edificazione di un Welfare State solido, del ruolo dello Stato come regista in alcuni settori di sviluppo economico e come vettore di rimozione di ostacoli, significa primariamente cercare di rianimare il patto sociale che è stato rotto e che oggi è del tutto sbilanciato a favore dei più forti, lasciando indietro strati sempre più ampi di popolazione.
Significa anche avere uno strumento in più per combattere le regressioni identitarie, le spinte securitarie, la paura del diverso: una Repubblica che permette la libertà e la partecipazione è anche una Repubblica a disposizione di tutti e tutte coloro che si sentono italiani o che lo vogliono divenire. Lontantissimi dal reaganiano “il Governo non è la soluzione ma il problema” è tempo di riaffermare che il Governo, un Governo progressista, ha gli strumenti per spezzare la guerra fra poveri e in questo senso è la nostra unica speranza. Misure come una concertazione internazionale per la tassazione delle multinazionali – fra le altre quelle del digitale: colossi come Google, Facebook, Amazon che pagano un nonnulla all’erario e in più di un caso sfruttano la forza lavoro locale – la ridiscussione in sede europea dei vincoli di bilancio e dei trattati di Maastricht, rifiutando il Fiscal Compact che si rinnoverà a Gennaio, sono fondamentali passi per restituire al lavoro un po’ della forza contrattuale che ha perso e per immaginare un Paese finalmente libero di pensare se stesso, architettare il proprio futuro, realizzare la propria vocazione nel mondo.