Perché i bombardamenti tedeschi su Londra non hanno piegato l’esercito britannico? E perché fu un errore scatenare l’aviazione sulla Germania? Fu capace di superare la prova chi era capace di comunità. Il libro di Rutger Bregman, Una nuova storia (non cinica) dell’umanità, (Feltrinelli, 2020), si apre con questi interrogativi e inizia un lungo percorso per rispondere alle domande: l’uomo è buono o cattivo? Ha ragione Hobbes (il pessimista convinto che l’uomo sia per natura malvagio e che solo la civiltà può salvarci dai nostri istinti bestiali) o Rousseau (sicuro che nel nostro intimo siamo buoni e che sia stata la ‘civiltà’ a guastarci)? Ha ragione Hobbes (dateci il potere, altrimenti finisce male) o Rousseau (dateci la liberà altrimenti finisce male)?
“Da una panoramica delle scoperte più recenti della psicologia e della biologia, dell’archeologia e dell’antropologia, della sociologia e degli studi storici, si ricava che l’essere umano ha avuto per millenni un’immagine sbagliata di sé. Per molto tempo abbiamo ritenuto che l’uomo fosse un egoista, una bestia, o peggio. Per molto tempo abbiamo creduto che la civiltà fosse una patina sottile, che viene via con niente. Questa visione dell’uomo e questa lettura della nostra storia si dimostrano del tutto irrealistiche” (pag. 315). Il futuro delineato dal libro, in base alla visione di un uomo strutturalmente buono, potrebbe essere molto diverso da quello che ci aspettiamo, se rimaniamo pessimisti, secondo il meccanismo profondo che regola l’attuale diffusione di notizie.
Uno dei dati più interessanti è l’ipotesi che alla base del successo dell’Homo sapiens ci sia la sua socievolezza, la sua indole amichevole, la sua capacità di fare gruppo, di imparare gli uni dagli altri e di addomesticarci reciprocamente (l’autore ci chiama Homo cucciolo): i nostri occhi e la nostra capacità di arrossire raccontano, unici nel creato, l’incredibile possibilità di far trasparire il vissuto più intimo di ciascuno. “Le persone socievoli non sono soltanto una compagnia più piacevole, alla fine sono anche più intelligenti” (pag. 70).
Il passaggio difficile, a questo punto, è fare i conti con tutte le guerre che la storia ci ha raccontato: ma molti studi dimostrano che l’essere umano è più portato all’interazione e alla solidarietà, piuttosto che alla violenza. In non pochi casi, seri studi statistici hanno mostrato che solo una piccola parte dei soldati spara durante le battaglie, a volte meno del 15%; ciò significa che siamo propensi non a distruggere, ma a incontrare l’altro e a decidere in base alla sua presenza.
Dove nascono, quindi, i problemi? Seguendo soprattutto Rousseau, l’autore afferma che furono le prime recinzioni (necessarie all’arrivo della agricoltura?) a rendere perverso un percorso che poteva essere di altro tipo. “Dovette costare una fatica enorme convincere la gente che terra, animali, persino altri esseri umani potessero essere proprietà di qualcuno. In fondo i cacciatori-raccoglitori dividevano praticamente tutto. Con l’invenzione della proprietà, cominciò a crescere la disuguaglianza. Dopo la morte, i beni posseduti vennero addirittura trasmessi alle generazioni successive. Così fu inventata l’eredità, che aggravò ulteriormente il divario tra ricchi e poveri” (pag. 94). Si iniziò a combattere. E l’abbandono del nomadismo impedì contatti con estranei e rese più diffidenti. Nacque il patriarcato, arrivarono virus e batteri; ma soprattutto l’uomo non riuscì più ad uscire da questa trappola innescata dall’agricoltura; si ingigantirono i conflitti e nacque anche lo Stato. Ma come ha creato tutto questo, l’uomo può gestire la sua socialità in modo diverso da come lo fa oggi, recuperando la sua profonda identità; l’autore cita Cechov: “l’uomo diventerà migliore quando gli avremo mostrato com’è” (pag. 104).
Una conferma viene dalla vera storia dell’Isola di Pasqua, a torto creduta una vicenda in cui l’uomo ha distrutto il suo ambiente ed anche se stesso. Letta nei fatti dimostrabili, invece, appare come “una storia di resistenza e ingegnosità. Non è un annuncio di sventura, è una fonte di speranza” (pag. 121).
Ma come spiegare, allora, le grandi tragedie dell’umanità? Come spiegare Hitler, Stalin eccetera? Alcuni esperimenti di psicologia sociale sembrerebbero dimostrare che l’uomo è spinto a compiere il male, come gli esperimenti sulle scosse elettriche comminate da persone “normali”. In realtà, le persone arrivano a infliggere sofferenze agli altri solo se sono adeguatamente manipolate e se il male è sufficientemente camuffato da bene (cfr. pag. 149). Eichmann non ha soltanto obbedito a ordini superiori. Lui ed altri “erano convinti di stare dalla parte giusta della storia. Auschwitz fu il punto di arrivo di un lungo processo storico in cui il male fu sempre più abile a camuffarsi da bene: per anni scrittori e poeti, filosofi e politici condizionarono e avvelenarono la psiche dei tedeschi. L’Homo cucciolo fu riempito di menzogne e indottrinato, manipolato e sottoposto al lavaggio del cervello. Solo a qual punto accade l’impensabile” (pag. 151). Anche Hannah Arendt, persuasa che l’uomo sia strutturalmente buono, capì che più che obbedienza si era davanti ad un conformismo che potremmo definire accrescitivo: si doveva superare anche i capi nella dedizione alle opere scelte dal regime. E spesso si cerca nella presunta indole malvagia dell’uomo una assoluzione per non fare: siamo così e siamo inguaribili. Invece la resistenza è una dote assolutamente necessaria e può essere educata. In Danimarca, nel 1943, le persone fecero fallire il piano per deportare i concittadini ebrei.
Siamo, in ogni caso, proiettati verso l’altro; lo siamo tanto più questo altro ci è vicino. Perché la propaganda anti nazista non ha toccato gli umili soldati tedeschi? Perché essi combattevano per i loro camerati; per questo uccidevano. L’empatia può diventare un problema se ci spinge ad assorbire le emozioni di quella persona e a far scomparire tutto il resto. Per questo “empatia e xenofobia” sono le due facce della stessa medaglia” (pag. 187). Ma è anche per questo che le grandi stragi sono possibili solo se vi è distanza tra chi opera e le persone da eliminare: si uccide solo se la vittima è lontana.
Purtroppo, nella nostra storia ci sono modi per creare distanza e sono l’inganno e la menzogna; questi sono anche alla base del potere e della sua conservazione, come ha mirabilmente dimostrato Niccolò Machiavelli. Molti esperimenti conducono a spiegare come sopravvivano i più amichevoli. Ma alcune persone riescono ad emergere perché sfruttano a loro vantaggio la loro caratteristica di non rispecchiarsi, di non connettersi con gli altri. “Non arrossiscono. Il potere ha come l’effetto di una anestesia che ci isola dagli altri” (pag. 193). Chi arriva a comandare è spesso senza vergogna, è come se si disumanizzasse, inventando sempre più giustificazioni per consolidare la sua posizione. Anche in democrazia si può usare questo meccanismo. E, malauguratamente, si può notare che anche la Costituzione americana è stata scritta per tenere fuori il popolo dalla gestione del potere; essa è un “documento intrinsecamente aristocratico, volto ad arginare le tendenze democratiche dell’epoca” (pag. 203, dove si cita Noam Chomsky). “Nel nostro mondo a sopravvivere è lo sfacciato” (pag. 2014).
In un contesto, quindi, costruito su recinzioni e proprietà privata, dove comandano i senza vergogna, l’empatia genera cameratismo utilizzabile contro l’altro, contro gli altri, specialmente se dipinti come nemici, come estranei. Tutta questa elaborazione è stata come riassunta da Hume: “Perciò è giusta massima politica, che ogni uomo deve essere considerato un furfante; per quanto, nello stesso tempo, appaia alquanto strano che una massima che è falsa di fatto debba essere vera in politica” (pag. 211).
Occorre, quindi, scommettere sulla capacità di contagio della fiducia, sulla capacità innata di attendersi fiducia da parte degli altri. Non è un sogno; sono molti gli esempi che vanno in questa direzione.
Nella sanità, Jos de Blok ha creato “Stichting Buurtzorg” nei Paesi Bassi, impresa da 14.000 dipendenti per l’assistenza domiciliare; lui è stato eletto varie volte come imprenditore dell’anno; la sua attività è “meglio per i pazienti, più piacevole per i lavoratori e più conveniente per i contribuenti. Win-win-win” (pag. 231). Il tutto nasce dalla fiducia nella motivazione intrinseca dei collaboratori. Stessa cosa in Francia, ma in una azienda per componenti per auto, la FAVI. “Niente è più forte di persone che fanno quello che fanno perché lo vogliono fare” (pag. 234).
Il medesimo percorso lo si può rintracciare nell’educazione: spesso costringiamo i più piccoli in gabbie dorate, che siano i parchi giochi o le scuole. Theodor Sørensen, architetto del paesaggio danese, ha implementato l’idea di luoghi per bambini “senza attrezzature, regole e norme di sicurezza, ma dove i protagonisti erano liberi di scegliere” (pag. 240). Sjef Drummen, artista e dirigente scolastico, ha ideato Agora, a Roermond, sempre nei Paesi Bassi: la filosofia didattica in quella scuola “è quella dei cacciatori-raccoglitori. I bambini imparano meglio in libertà, in una comunità, con tutte le età e i livelli mescolati tra loro, seguiti da coach e responsabili del gioco. Drummen la chiama istruzione 0.0: il ritorno all’uomo che gioca” (pag. 247).
Molti esempi anche in politica, partendo da tutte le città che hanno costruito bilanci partecipati. Trattare le persone come cittadini responsabili crea fiducia e la diffonde. Non sono più vacche da mungere al voto, ma protagonisti responsabili. Tutto il mondo dei beni comuni aiuta a percorrere questa traiettoria: coinvolgere con fiducia genere benessere e felicità diffusa. Non siamo cloni dell’Homo oeconomicus egoisti e rinchiusi in noi, ma persone capaci di collaborare e cooperare. Purtroppo, coloro che sono imprenditori di successo, dal punto di vista quantitativo, vanno nella direzione opposta, estraendo risorse e beni dalle persone e dalla società.
Ancora più hard le testimonianze sulle prigioni e sull’uso della forza per gestire il potere. Alcune carceri norvegesi sono costruite sulla fiducia, generano fiducia e sanno ricreare vera umanità in persone che altrove sono solo isolate, brutalizzate e “indotte” a commettere nuovi reati.
Straordinaria anche la testimonianza sul Sudafrica, dove Nelson Mandela ha compiuto uno dei grandi capolavori dell’umanità, proprio partendo dal fidarsi, dall’accogliere.
E se non esistessero testimonianze certe, sarebbe incredibile prendere per vero il racconto del Natale del 1914, ascoltando quello che è avvenuto tra le trincee della prima guerra mondiale: si è festeggiato insieme, insieme a coloro che si cercava di uccidere. Ma anche in Colombia per arrivare alla pacificazione nazionale sono avvenuti fatti quasi miracolosi. “La guerra non è nella nostra natura. Ciò che dobbiamo tenere a mente, e lo dico anche per me stesso, è che l’altro è come noi” (pag. 310).
Il libro si conclude con un interessantissimo decalogo per essere realisti sul serio, cioè persone che partono dalla vera natura dell’uomo. Non è facilmente riassumibile; la direzione che indica è prendere sul serio la vita dell’altro, degli altri perché della loro presenza non possiamo fare a meno per essere felici. Fidarci ci apre al mondo reale, perché strutturalmente siamo impastati della capacità di relazionarci con chi incontriamo nella vita.
Il libro è la pietra fondativa per un mondo davvero diverso; l’autore è uno storico di formazione; la storia traccia una strada maestra che possiamo ancora scegliere a partire dalla politica per proseguire con l’economia ed arrivare alla giustizia, alle prigioni. Ma occorre partire dalla politica, l’arte più sublime dell’uomo. Nessuno può negare la crisi della democrazia, ad esempio. Ma non è crisi prettamente delle istituzioni democratiche; anche, ma non solo. È scomparso l’Homo democraticus, l’uomo capace di far funzionare la democrazia, capace di associarsi, di scegliere una parte per il bene di tutti, capace di costruire il popolo, capace di individuare le disuguaglianze (soprattutto nelle opportunità) e di porvi rimedio. È scomparso l’uomo che insieme ai suoi simili cerca la verità nelle necessarie mediazioni, senza compromessi al ribasso, l’uomo che desidera partecipare perché gli interessa, gli sta a cuore. È questo l’uomo che dobbiamo ricreare: il tassello da cui partire è che ogni persona ha molto più di buono di quanto possiamo pensare e a partire da qui possiamo far crescere la fiducia; se questa aumentasse, anche il bene dell’altro non potrà che crescere.