Quello che sta emergendo chiaramente in queste ultime settimane (ma non solo) è il caos, a tratti poco calmo, in cui è sempre più avvolta la Gran Bretagna a pochi mesi dall’uscita dall’Unione europea. Questa situazione rappresenta una prima tangibile forma di sconfitta della variegata Internazionale delle forze sovraniste.
La vittoria del fronte del “Leave” al referendum sulla Brexit del giugno 2016, infatti, aveva rappresentato la più clamorosa vittoria degli euroscettici in un Paese membro della Ue. Pertanto, il risultato era stato accolto dai sovranisti come il riscatto di un popolo nei confronti degli “odiati burocrati di Bruxelles”, quasi a rappresentare – in modo plastico – il primo soffio di libertà che avrebbe fatto crollare il castello di carte dell’Unione europea. Ma nel corso dell’estenuante maratona della trattativa britannica “l’Europa dei burocrati” (espressione cara oltre che a uno dei leader della Brexit, Nigel Farage, anche a Salvini e Di Maio) ha espresso una concretezza politica e una forza negoziale su cui pochi avrebbero scommesso. Bruxelles ha dettato i tempi della trattativa, garantendo che si stabilissero prima le modalità dell’uscita della Gran Bretagna, e solo successivamente si cominciasse a negoziare sui rapporti futuri. È stata inflessibile sul principio che la libertà di circolazione dei beni, servizi e capitali è saldato alla libera circolazione delle persone, costringendo pertanto la Gran Bretagna a uscire dal mercato interno per riappropriarsi del controllo dei confini nazionali.
Dopo quasi due anni di negoziati con Bruxelles, la premier Theresa May ha concordato con i 27 leader della Ue un testo (585 pagine più allegati e annessi) di uscita da sottoporre a un voto del parlamento di Westminster. Questo voluminoso documento non affronta molte delle questioni più spinose, come il rapporto che la Gran Bretagna e l’Ue avranno alla fine di un primo periodo di transizione (dal 29 marzo 2019 sino alla fine del 2020). All’interno del testo vengono formulate anche risposte ad alcuni problemi urgenti: garantire che non ci sarà una nuova frontiera controllata tra Irlanda del Nord e Irlanda. Londra, inoltre, si impegna a onorare tutti gli impegni riguardanti il bilancio, fondi e programmi Ue fino al 2020. Contribuirà, inoltre, in parte anche al bilancio 2021-2027 se sarà esteso il periodo di transizione. Dovrà tenere in considerazione le sentenze della Corte di Giustizia Europea, vincolanti fino al 2020.
Nella situazione attuale la Gran Bretagna dispone di due ulteriori opzioni, ma entrambe difficilmente percorribili: la possibilità di uscire senza accordo – con pesanti ricadute economiche – e quella di tentare un secondo referendum (ci sono state anche alcune manifestazioni a favore di questa opzione).
Appare veramente complicato comprendere come mai La Gran Bretagna, il Paese meglio attrezzato per l’uscita, con un sistema politico stabile e una buona pubblica amministrazione sia stata quasi incapace di negoziare. Londra, infatti, è una delle prime economie all’interno della Ue, ha stretti (e storici) legami con gli Stati Uniti e un gran numero di Paesi in tutto il mondo. Ricordiamoci, inoltre, che non fa parte dei Paesi che hanno adottato l’euro. Una delle spiegazioni possibili potrebbe essere la mancanza di visuale sul futuro che caratterizza l’attuale forma di sovranismo.
Durante la campagna per il referendum sulla Brexit il fronte del “Leave” aveva sostenuto a gran voce che i Paesi membri della Ue si sarebbero divisi e avrebbero quindi acconsentito alle richieste di Londra; ancora più ammaliante era la promessa che sbattendo la porta non ci sarebbe stato nulla da pagare ma anzi ci sarebbe stato un guadagno economico immediato. Nessuno dei paletti che Bruxelles ha piantato all’indomani del referendum è stato spostato anche solo di pochi centimetri. Anzi, l’Europa unita è riuscita a guidare la Gran Bretagna verso una “soft Brexit” (un’uscita morbida: con accordo).
Questa svolta di fermezza dell’Europa dovrebbe far riflettere i sovranisti che avevano intravisto nella Brexit un segno di debolezza e annesso declino della Ue, che rappresentano l’uscita dall’euro e dalla Ue come la più favorevole delle prospettive. Queste sono logiche provenienti da manuali di economia vecchi almeno di 30 anni, inadatti a rappresentare le dinamiche attuali: il nostro Paese, come tutti, deve importare alcuni prodotti per realizzarne altri, che successivamente rivende a partner esteri. Quindi, dopo una svalutazione, l’Italia esporterebbe a prezzo più basso ma importerebbe a prezzo più alto. Come dimostra la storia fino qui, quando si passa dalla frenesia elettorale alle dinamiche del governare, le cose si complicano esponenzialmente.
È utile ripensare anche agli albori della Brexit: David Cameron aveva elaborato un piano (usare il referendum per rinegoziare la permanenza britannica nella Ue), un po’ come il governo del presunto cambiamento con la Legge di Bilancio. Ma succede un qualcosa di imprevisto, i britannici votano per lasciare l’Unione europea, bocciando sostanzialmente l’accordo di Cameron, che perde la sua personale partita ed è costretto a uscire dalla scena politica. Sembrava, quindi, che si aprisse una prateria per la conquista del potere da parte dei suoi rivali sovranisti (Nigel Farage e Boris Johnson). Ma a guidare i negoziati con l’Unione europea è stata Theresa May, incolore.
In questi giorni sia i laburisti che i conservatori hanno annunciato che il testo firmato dalla May non va bene: se l’accordo a dicembre non sarà ratificato potrebbe iniziare il cammino verso il “no deal” e la Gran Bretagna si ritroverebbe a svolgere le seconde elezioni anticipate in due anni, con un notevole rischio di disgregazione sia in Irlanda che in Scozia. Jeremy Corbyn ha dichiarato che: “questo è un cattivo accordo, il risultato di un miserevole fallimento dei negoziati che ci lascia nella situazione peggiore: metteremo a rischio posti di lavoro e benessere”.
Con il populismo e l’anti-europeismo in ascesa in tutta Europa (un recente esempio è il voto in Andalusia) il governo giallo-verde sembra apparentemente aver accantonato il piano di uscita dall’euro e il divorzio da Bruxelles, aprendo una mediazione (in funzione delle elezioni del 26 maggio 2019) con le istituzioni europee e mantenendo un velato scetticismo. È utile, tenendo presente il caso Brexit, delineare alcuni conseguenze di un’eventuale Italexit: l’uscita dell’Italia dalla Ue causerebbe una serie di ricadute negative su bilancia commerciale (import/export), fondi comunitari (i finanziamenti per progetti su larga scala, dall’agricoltura allo sviluppo tecnologico), accesso a standard internazionali e, perfino sulla sicurezza del nostro Paese. È vero che l’Italia figura fra i “contributori netti” (i membri della Ue che versano più di quanto ricevono), ma il budget annuo ha un impatto concreto a seconda di come vengono (o non vengono) spesi i fondi stanziati.
L’Italia si troverebbe isolata, inoltre, dal punto di vista dell’allerta terroristica: infatti, in caso di uscita dalla Ue l’Italia non avrebbe più accesso ad alcuni strumenti come lo Schengen Information System II (SIS II), un sistema di informazioni centralizzato che sostiene i controlli alle frontiere esterne Schengen e rafforza la cooperazione tra i vari corpi di polizia nazionale. Anche per questo aspetto, la vicenda della Gran Bretagna è istruttiva: Scotland Yard ha sottolineato le conseguenze negative di un’uscita senza accordi bilaterali.
In conclusione, sono necessarie alcune considerazioni sulla situazione della Gran Bretagna (molto simili a quelle di casa nostra) per riflettere sul ruolo e l’azione di un nuovo partito di sinistra in Italia, sulla necessità di ascolto e dialogo. La classe lavoratrice britannica è stata abbandonata da molti anni e oggi si ritrova senza punti di riferimento. I laburisti (prima della svolta apportata da Corbyn) si erano allontanati dalle periferie, avevano perso il loro legame con operai e sindacati. La sinistra (anche nel caso britannico) viene vista come un’élite distante e racchiusa nel centro città, non in grado di ascoltare le reali necessità e aspirazioni della popolazione. In questo stato di tumultuoso disagio sociale, il voto “Leave” è apparso come un gesto estremo di protesta. Non deve sfuggire il fatto che a favore della Brexit hanno votato soprattutto gli operai, che non hanno ottenuto più certezze dall’esito del referendum ma aperto le porte alla finanza desiderosa di capitali esteri.