Il 20 settembre, con il voto per il referendum confermativo della legge costituzionale che riduce il numero dei parlamentari, si gioca un passaggio importante del futuro assetto istituzionale. Non si tratta semplicemente di tagliare una parte, peraltro infima, delle spese, si tratta di andare ad incidere sul rapporto tra eletti ed elettori, sulla rappresentanza del popolo la cui centralità è sancita dalla Costituzione.
La riduzione dei parlamentari, qualora – e pare molto probabile – vincesse il sì, non costituirebbe un attentato alla nostra Carta fondamentale, ma sicuramente rappresenterebbe un atto di scostamento da uno dei suoi principi fondamentali sanciti nel suo primo articolo che afferma che la sovranità appartiene al popolo e quando si allarga il divario tra eletto ed elettore, tra cittadino che deve esprimere la propria scelta e candidato: si rischia davvero di costruire un solco tra rappresentanti e rappresentati.
Inutile nascondere due aspetti salienti di ciò cui ci troviamo di fronte: da un lato la proposta di riduzione dei parlamentari è nata dalla spinta “antipolitica” dei Cinque Stelle, dall’altro la necessità di costruire una coalizione che arginasse la destra ad egemonia salviniana ha spinto il centrosinistra ad accettare l’inserimento nel programma di questa misura mettendo però alcuni paletti, primi fra questi una nuova legge elettorale di stampo proporzionale e la revisione dei regolamenti parlamentari. Paletti però finora disattesi, per cui si arriva al referendum senza che neppure esista all’ordine del giorno delle Camere una nuova legge elettorale e con forze della maggioranza che giorno dopo giorno si smarcano da quell’accordo.
Ridurre il numero dei parlamentari, superare il bicameralismo sempre più imperfetto non è un tabù e non occorre, per andare in soccorso del Sì al referendum, scomodare la commissione bicamerale presieduta al tempo da Nilde Iotti. Occorrerebbe invece rendersi conto ed avere coscienza che la Costituzione è qualcosa di delicato e fragile e che le riforme pasticciate ne indeboliscono di fatto la struttura e la portata. Che una riforma che incide pesantemente sulla rappresentanza non può essere monca, non può non avere al suo interno una visione di tutto l’insieme che questo terreno pone e impone.
Sul piatto ci sono le ragioni del Sì e le ragioni del No e se liberiamo il campo dalle posizioni “di bandiera” ovvero da una parte il risparmio (il costo di un caffè all’anno per ogni italiano) e dall’altro “la fine del mondo” forse riusciamo a ragionare sulla necessità che la politica affronti questi temi liberandosi da slogan e preconcetti e rifletta sull’importanza degli assetti istituzionali del Paese e sul peso e i riflessi che questi hanno sulla democrazia che deve essere non tanto proclamata e ingessata, ma piuttosto reale, concreta e praticabile.
È innegabile che se a fronte della vittoria del Sì fosse licenziata dal Parlamento una nuova legge elettorale di stampo maggioritario l’effetto del referendum sarebbe davvero stravolgente il principio di rappresentanza e andrebbe oltre la sua stessa portata, ad incidere pesantemente e in negativo sul dettato costituzionale.
Al momento è del tutto impensabile che una nuova legge elettorale venga licenziata dalle Camere prima del 20 settembre e allora la politica, che già ha mancato l’impegno ad arrivare in altre condizioni alla chiamata alle urne su questo quesito, si impegni davvero e solennemente a lavorare sugli aspetti che in ogni caso l’esito del referendum lascerà sul tappeto.
La democrazia è un prezioso gioiello di cristallo, non è una scatoletta di tonno e si deve maneggiare con cura, e con amore, passione e lungimiranza.