Ho letto con molta attenzione il documento dal titolo “Spunti per un discernimento politico”, sottoscritto da cinquanta personalità cattoliche italiane. A molti dei firmatari sono legato da sentimenti di antica amicizia e da anni di battaglie comuni. Il contenuto di questo testo è un punto di partenza su cui, per molti aspetti, mi riconosco.
Il primo allarme che viene sottolineato riguarda il fenomeno dell’astensionismo e non deve essere preso sottogamba. Si tratta di un punto delicato e decisivo per la tenuta del processo democratico nel nostro paese e credere che ci si possa accontentare solo di rilevare che il più grande partito italiano è quello degli astenuti sia semplicemente una follia. Già il governo, con una commissione presieduta dal professor Franco Bassanini, composta da studiosi come Antonio Floridia, ha lavorato per studiare come affrontare il problema. La questione, però, non è di natura tecnica.
Naturalmente, la peggiore legge elettorale che il nostro sistema abbia mai visto non aiuta di certo. Eppure io continuo a sostenere che il tema sia strettamente politico. Spetta alla politica invogliare i cittadini a partecipare con metodo democratico, sia durante le elezioni, sia nel resto della legislatura, al regolare andamento del dibattito. Solo se saremo in grado di ascoltare i bisogni delle persone, di saperli interpretare e di risollevare la partecipazione politica attiva, allora potremo sconfiggere l’astensionismo, grande vulnus dei sistemi democratici. Va riaperta una riflessione sui partiti politici e la loro rilegittimazione, dopo decenni di personalizzazione esasperata e di svuotamento dei corpi intermedi: non esiste una democrazia compiuta senza forze politiche popolari e pienamente democratiche.
Condivido l’analisi sull’intreccio tra lo scenario della pace, quello della giustizia sociale e la salvaguardia dell’ambiente. Anzi, sono fermamente convinto che tale intreccio sia indissolubile. C’è una parte politica, più regressiva che conservatrice, più reazionaria che liberista, che spinge verso la negazione del problema climatico. La destra italiana, dove le componenti centriste sbiadiscono ogni giorno di più, ha dei riferimenti internazionali chiarissimi. Donald Trump, per dirne uno. Oppure il presidente brasiliano Bolsonaro, per dirne un altro. Nessuno di loro crede che il tema del clima vada affrontato con coraggio o serietà. Pensano che non sia una svolta epocale per tutta l’umanità e negano l’evidente realtà. Se questi sono i riferimenti internazionali della destra italiana, come si può anche solo pensare che siano pronti a formulare proposte concrete per promuovere un modello di sviluppo basato su un equilibrio eco-sostenibile?
L’Italia ha bisogno di un progetto ambizioso e il centrosinistra deve guidare il paese verso questo cambiamento in difesa del clima e del sostegno all’energia rinnovabile. Lo dobbiamo a noi stessi, alla realtà che viviamo, all’allarme mondiale che stiamo attraversando, ma lo dobbiamo soprattutto anche ai nostri figli.
La Costituzione deve essere il nostro progetto politico. Nella Costituzione, all’articolo 9, uno dei principi fondamentali, c’è scritto che la Repubblica tutela l’ambiente anche nell’interesse delle future generazioni. Lo abbiamo voluto, lo difenderemo e lo attueremo nel dettaglio, provando a superare contraddizioni e limiti che ancora nel nostro campo, soprattutto quando si scende nella concretezza amministrativa, emergono con grande evidenza. È un patto che facciamo con noi stessi e con i nostri figli.
In virtù di questo patto, abbiamo il dovere morale di consegnare loro un paese in cui si possa vivere con dignità, consapevoli di un lavoro che offra garanzie per il futuro e di uno Stato che provveda ai servizi essenziali per la propria comunità. Il welfare di oggi appare più debole di qualche anno fa. Ma puntare al rafforzamento del welfare state, provare con tutte le nostre forze a invertire questa rotta, significa una cosa sola: lavorare per ridurre la disuguaglianza.
Chi non immagina una concezione gerarchica della vita, chi crede nel concetto di uguaglianza, chi crede che nei diritti umani inalienabili non può non volere uno Stato che si impegni per una uguaglianza vera, sostanziale. Uguaglianza vuol dire garantire a tutti le stesse opportunità. E non si garantisce a nessuno la giusta opportunità di vivere pienamente la propria vita se il fisco non funziona progressivamente, se la povertà tocca cifre record, se la disoccupazione sembra una montagna insormontabile e se i redditi bassi restano bassi, mentre precarietà e prezzi volano alle stelle. Noi su questo terreno combattiamo. E con questo spirito abbiamo stretto un patto con i nostri figli inserendo le nuove generazioni dentro la Costituzione.
Ma che mondo sarebbe se questi punti, se la giustizia sociale e la giustizia ambientale, non fossero perfettamente allineati con i concetti di pace e multilateralismo? Non c’è l’uno senza gli altri tre e viceversa. La pace è una condizione essenziale per poter garantire lo sviluppo delle nostre società democratiche. Ed è nostro preciso dovere, “nostro” come italiani e “nostro” come europei, lavorare costantemente per tessere una rete di rapporti internazionali in grado di fermare la guerra attraverso l’avvio dei negoziati.
Anche nel centrosinistra si è assecondata l’idea che “la pace come politica” fosse una scelta da anime belle e non invece la sola strada da percorrere se non vogliamo alimentare una escalation militare permanente nel cuore della vecchia Europa. Certamente, nessuno nega il diritto di un popolo colpito a difendersi e nessuno dirà mai che non sia sacrosanto il sostegno alla resistenza del popolo ucraino. Ma saremmo fuori strada se pensassimo di poter proporre uno sviluppo sul fronte sociale, insieme ad una evoluzione ecologica del nostro sistema produttivo, senza puntare le nostre energie, contemporaneamente, su di un processo di pace serio e duraturo in Europa. Non è solo una questione economica. La pace è giusta e chi non lavora per la pace, chi non mette la pace nel proprio programma politico, semplicemente non la vuole. Se vogliamo rispettare quel patto con le prossime generazioni, noi dobbiamo consegnare loro una situazione internazionale, multipolare, in equilibrio, senza alimentare tensioni pericolose per la vita di tutti a partire dal ritorno sulla scena dell’incubo nucleare. Occorre una nuova Helsinki che rimetta al centro una strategia duratura di sicurezza e cooperazione tra est e ovest in Europa.
Vogliamo costruire un fronte che provi ad abbracciare una visione di futuro con speranza e responsabilità. Quella stessa responsabilità nei confronti del prossimo che Articolo Uno, partito co-fondatore della lista “Italia Democratica e Progressista”, ha provato a mostrare durante tutti i mesi difficili della lotta al COVID, quando emergevano tendenze negazioniste e la voglia da parte di un pezzo del sistema economico e imprenditoriale di anteporre il profitto al diritto alla salute. Certo, questa lista non basterà da sola e dovrà essere un punto di partenza, a cominciare dalla coalizione in cui è inserita, in grado di tessere le sorti di una prospettiva ancora più ampia. Nel frattempo, però, cerchiamo di porre le prime basi per un progetto progressista, che permetta al paese di andare avanti senza regressioni di sorta, a cominciare dalla prospettiva economica.
A tale proposito, è necessario ricordare come nel programma delle destre si menzioni il cambiamento del Pnrr. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, la parte italiana del NGEU, si può interpretare in modi differenti, a seconda della strategia politica che le forze politiche di maggioranza decidono di condividere. Ma ridiscuterlo a livello europeo vuol dire rischiare di perdere i fondi che possono trasformare il volto dell’Italia per i prossimi 50 anni e oltre! Se si vuole difendere il modello NGEU bisogna, per primi, come paese Italia, essere in grado di sfruttarlo al massimo. Chi minaccia di volerlo cambiare, gioca con le sorti degli italiani. Ridiscutere il piano con l’Unione significa rischiare di perdere i fondi ottenuti, oltre che tempo prezioso per nuovi, incerti negoziati. Non si può scherzare su questo argomento.
Articolo Uno è stato leale durante il Governo Conte 2, che ha negoziato la quota dei fondi internazionali da destinare all’Italia. Articolo Uno è stato leale verso il Governo Draghi, che ha impostato la prima parte del Piano. Adesso è il momento di cogliere la sfida della sua implementazione mostrando all’Unione, in ottica di collaborazione e non di contrapposizione, che Next Generation EU deve andare oltre la dinamica dell’emergenza. L’importanza strutturale del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza dimostrerà la necessaria adozione di un programma NGEU per tutta l’Europa in pianta stabile. Perché questo è il modello di Europa che bisogna perseguire e non si riuscirà a difenderlo, o a migliorarlo, con un governo italiano che non vuole una Europa unita. Fratelli d’Italia ha più volte sostenuto la lotta per una sorta di “Europa delle nazioni”, dove ognuno cammina per sé e si ritrova da solo immerso nelle difficoltà. Per questo modello di Europa, non c’è spazio per la solidarietà tra stati membri e per un processo di integrazione stabile e duraturo.
Le difficoltà, come si evince dal documento in questione, sono tante su tutti i fronti, compreso quello dell’immigrazione. Ringrazio i firmatari del documento per avere rimesso al centro questa questione.
È preoccupante l’idea che, forse, chi predica i blocchi navali armati possa avere la maggioranza in Parlamento. La comunità che rappresento, che mi ha candidato in queste elezioni nazionali, si schiera dalla parte opposta e non risponderà mai a chi ha bisogno di aiuto con le armi. Non è nella nostra cultura, non è nella nostra storia e non lo sarà mai. Occorre, però, non essere superficiali sul tema e immaginare una grande rete di pianificazione dell’integrazione europea, ricordando due dati recenti essenziali. Una forte immigrazione pare essere in arrivo dal continente africano nei prossimi due decenni, dovuta a un probabile aumento demografico, alle guerre, ai cambiamenti climatici.
Contemporaneamente, è l’Europa che soffre di un parallelo deficit demografico che, automaticamente, rischia di non consentirle di produrre più le risorse economiche per sostenere il proprio welfare state. Come insegnano le parti migliori delle culture cattoliche e socialdemocratiche, non bisogna avere paura del prossimo. Aprirsi all’altro è un programma etico, ma è anche un tema di tenuta sociale del paese. Inneggiare alla paura del diverso, al disprezzo del più debole, non solo rischia di scatenare una guerra tra poveri, ma alimenta anche un diffuso senso di odio verso l’altro. I tanti fenomeni di razzismo, pur essendo da imputare solo a chi li compie, non sono impermeabili nei confronti di una certa politica che nega i concetti di accoglienza, di integrazione e di sostegno a chi viene da lontano in cerca di una vita migliore. Che sia chiaro: la politica ha anche una funziona pedagogica di cui è pienamente responsabile.
Una vita migliore è reclamata anche dalle famiglie italiane, specialmente da quelle con redditi insufficienti a garantire stabilità al proprio nucleo. Anche su questo il documento proposto è puntuale. Si potrebbe specificare cosa si intende per “famiglia” nel 2022, ricordando che la Costituzione individua il concetto come “società naturale” e che, conseguentemente, ogni persona ha diritto, liberamente, di costruirne una con chiunque lo desideri. Evidentemente, questo diritto naturale si lega al dovere di garantire la possibilità di mantenere una famiglia. E allora misure in sostegno agli asili nido, alla maternità, alla paternità e ad altri istituti che possano conciliare le politiche del lavoro con le esigenze familiari sono necessarie. Dovremmo, però, partire da una questione che reputo dirompente e non più trascurabile. È compito della politica rimuovere gli ostacoli alla piena parità di genere ed è compito della politica riconoscere che il sacrificio della propria carriera, delle proprie ambizioni lavorative, quando non pienamente volontario, rappresenta una forma di discriminazione che l’Italia di oggi, non solo quella del domani, non può permettersi di avere. Su questo argomento bisogna essere uniti, perché c’è molto da fare e la strada passa, ancora una volta, dai problemi legati al mondo del lavoro.
Il lavoro si lega molto anche al problema della legalità e della criminalità organizzata. È assurdo che questo tema sia stato sottovalutato nel recente dibattito pubblico, ma bisogna riportarlo con forza sotto i riflettori. Si potrebbero esprimere tanti commenti, ma uno su tutti vorrei venisse sottolineato. La sinistra non può non guardare i problemi delle condizioni generali dei lavoratori, ma non può nemmeno distrarsi davanti ai problemi dei piccoli-medi imprenditori che, a causa della crisi, davanti alla possibilità del fallimento o di non pagare gli stipendi dei propri impiegati, si rivolgono ai soldi “facili” della criminalità organizzata. Quante imprese, così facendo, finiscono di fatto nelle mani dell’illegalità profonda?
La criminalità organizzata si combatte lottando sul fronte della cultura, tutti i giorni, senza se e senza ma. Contemporaneamente si combatte con le politiche sul mercato del lavoro che consentano al tessuto imprenditoriale di rimanere in piedi con lealtà contrastando, faccia a faccia, le “offerte” sporche di sangue. Lo Stato deve essere la corazza di chi vuole combattere la criminalità organizzata. Ma lo Stato non è credibile se condona, se fa sanatorie fiscali, se non punisce chi si è approfittato del sistema, aggirando le regole e punendo gli onesti. La politica e lo Stato devono difendere e rappresentare l’onestà di chi, ogni giorno, lavora con disciplina e onore. Solo una sana cultura della legalità può permettere al nostro paese di camminare con la schiena dritta e di rigettare quelle proposte politiche che stringono le mani a chi se ne approfitta, che servono solo a raccogliere qualche voto e a creare una distinzione ingiusta quanto inutile: quella tra paese legale e paese reale. Noi sappiamo che, nella sua stragrande maggioranza, il paese reale è il paese legale. E il paese legale è quello che la sinistra vuole rappresentare.
Sono estremamente grato ai firmatari dell’appello per avermi consentito di esprimere un’opinione sulle questioni politiche profonde che sono state sollevate. Ci saranno tempi e modi per approfondire pienamente ogni argomento citato. Il tempo, però, non è tantissimo per decidere da che parte stare e che tipo di Italia si vuole immaginare. Dal 26 settembre il futuro Parlamento sarà chiamato a compiere scelte cruciali, alcune delle quali non si limiteranno alla prossima legislatura, ma dovranno impostare l’Italia dei prossimi decenni. Il lavoro da fare è tanto, così come è grande la passione che stiamo cercando di trasmettere in questa campagna elettorale anomala. Casa per casa. Strada per strada. Ci sono tante battaglie da combattere e sono convinto che ci sia un campo di valori comuni da coltivare per i prossimi anni.