Appena fuori – si fa per dire – dalla sbalorditiva partita presidenza della repubblica, a pochi giorni dalla Giornata della memoria, basiti persino più che indignati da due quindicenni che hanno insultato e sputato su un ragazzino di dodici (“Sei ebreo, devi morire nel forno”), le parole di Thomas Bernhard che si levano da Piazza degli Eroi, ci precipitano addosso in tutto il loro furore.
Ce l’ha con l’Austria e con Vienna, “cloaca spiritualmente vuota che sparge puzzo in tutta Europa” dove il “nauseante pseudosocialismo” non ha fatto che favorire “l’odierno populismo fascista”, dove lo Stato è una “fogna puzzolente e funesta” e la realtà “talmente orrenda che non può essere descritta”.
Eppure Bernhard ci prova lo stesso e lo fa attraverso la figura di Robert Schuster, professore di filosofia consegnato al disincanto o tuttalpiù a un cinismo antieroico, qualora venga sollecitato. Un uomo vecchio, ritiratosi a vivere in solitudine nella sua casa di campagna, lontano da quelli che chiama i “becchini d’Europa”, finti socialisti “pasciuti e opulenti”, “arraffaposti” incapaci che avvelenano quel poco che resta della vita intellettuale e culturale della città, lontano da un’umanità ottusa e abbrutita da rigurgiti antisemiti e dalla scriteriata fiducia nell’uomo forte, sorta di soluzione finale che impaziente attende dietro l’angolo della storia in una Vienna in cui “ci sono più fascisti che nel ‘38”.
Insomma, Bernhard in questo suo ultimo testo-testamento, scritto nel 1988, pochi mesi prima di morire e appena prima della caduta del muro di Berlino, c’aveva visto lungo assai.
Viene da domandarsi anzi se tali pseudo – socialisti, intellettuali, maître à penser, strateghi e capibranco – non siano il prodotto di una ‘attitudine’ dello spirito, più che il frutto di una contingenza storica che ciclicamente si ripete, variamente declinata ma sostanzialmente identica.
Bernhard ce l’aveva in particolare con l’Austria nel periodo di ascesa al potere di Jorg Haider (che proprio nell’89 venne eletto governatore della Carinzia), dove l’antisemitismo strisciante faceva tornare alla mente l’annessione alla Germania nazista di cinquant’anni prima, e ne racconta gli umori e gli effetti sulla percezione collettiva e nelle coscienze sgretolate di una famiglia ebrea un tempo emigrata per sfuggire alle leggi razziali e ora rientrata in una Vienna sempre più barbara e ostile.
Quella stessa Vienna della Heldenplatz, dove il 15 marzo 1938 migliaia di persone acclamavano Hitler.
Quella stessa Vienna in cui Thomas Bernhard vietò la pubblicazione e la messa in scena delle sue opere.
Compresa quest’ultima, indiscusso capolavoro mai rappresentato in Italia prima d’ora, in cui Josef Schuster, fratello di Robert, muore suicida lanciandosi dalla finestra della sua casa affacciata su Heldenplatz. È il grande assente di questa tragedia, colui che non ha resistito a tanta oppressione, colui di cui si parla, colui di cui non si smette di prendersi cura stirando le camicie e contemplando la sua infinita collezione di scarpe, colui che si piange e rimpiange attraverso i vetri della sua casa sgomberata, colui del quale si prova a raccogliere il testimone, colui il cui gesto non suscita invece nessuno stupore, forse solo una benevola invidia per avere semplicemente dato una mano al destino e affrettato il traguardo.
“Non esistere più è il nostro traguardo”, dirà Robert sul finire abbracciando lo spettro del fratello che aleggia sulla scena nelle vesti di un pianista silente che suona brani di musica classica.
Sono due opposti complementari, i due fratelli Schuster, due facce che vivono e rivivono l’uno nell’altro: specchiandosi e negandosi e quindi riaffermandosi, il vivo e il morto, il rassegnato e il suicida, l’amante del silenzio e l’amante del caos, dei poeti russi e della musica classica. Uguali e diversi, entrambi vittime della peggiore storia riavvolta come un nastro che arriva fino a noi.
“La tragedia non è la morte di mio fratello: la tragedia è che noi siamo sopravvissuti”.
Tragedia che la vedova Schuster non ha mai cessato di scontare in prima persona, infestata dai fantasmi del passato e dalle voci che sente salire dalla piazza, invocando l’uomo forte, “un regista che li sprofondi definitivamente nel baratro”.
Piazza degli Eroi è uno spettacolo importante, ben diretto da Roberto Andò e molto ben recitato da una compagnia solidissima, dominata da Renato Carpentieri, magnifico, e da una strepitosa Imma Villa nel ruolo della fedele governante, sulla quale si regge quasi tutta la prima parte.
Un plauso a tutti, nessuno escluso. Betti Pedrazzi, Silvia Ajelli, Paolo Cresta, Francesca Cutolo, Stefano Jotti, Valeria Luchetti, Vincenzo Pasquariello, Enzo Salomone. Scene Gianni Carluccio, costumi Daniela Cernigliaro, suono Hubert Westkemper. Lo spettacolo, visto al Teatro Argentina di Roma, ha debuttato al Teatro Mercadante di Napoli che lo ha coprodotto e sarà in tournée fino al 6 marzo.