L’immagine che meglio descrive la campagna elettorale appena conclusa è quella di Giorgia Meloni con l’immancabile smartphone in mano, pronta a regalarsi un selfie alla testa di una folla plaudente, debitamente arringata a colpi di “Dio, patria e famiglia”, “la pacchia è finita” e “difendiamo il diritto a non abortire”. Poco, per valutare il peso specifico delle forze destinate a governare una delle congiunture più difficili della storia del Paese. Abbastanza, per alimentare la ubris della nuova destra di governo, nella sua scientifica alternanza tra la rassicurante grisaglia dei conservatori europei e la tuta mimetica dei sostenitori di quel che resta di Visegrad: la ubris delle carezze a Orban e degli applausi agli oplites di Capitol Hill; la ubris dei saluti romani e degli ammiccamenti al mondo no-vax; la ubris dei balli in piazza e del “soy una mujer, soy una madre, soy cristiana” sparati a beneficio dei commilitoni di Vox. La ubris degli smartphone; la ubris dei selfie.
Una ubris controllabile e fisiologica, si dirà: figlia illegittima dell’onda di consenso che ciclicamente alimenta l’ascesa delle più radicali forze di opposizione fino all’empireo della stanza dei bottoni, e che altrettanto ciclicamente si dissolve dinanzi alle concrete difficoltà del governare. Una ubris urticante, poco rifinita, esibita muscolarmente, ma comunque riconducibile alle normali dinamiche della dialettica democratica. Chi vince gonfia il petto, chi perde tace e riflette: è la democrazia, bellezza.
Ricostruzione parzialmente accettabile (specie agli occhi di quanti, forse condizionati da una visione invero limitata della storia italiana del ‘900, liquidano alla stregua di verboserie da campagna elettorale sia le pose erculee messe in mostra sui social, sia le aderenze mai celate con le forze dell’ultradestra che imperversano per il vecchio continente), finché la ubris del selfie non minaccia di “farsi istituzione”, alterando – nel quadro dell’ennesimo percorso riformatore ispirato dal refrain “la Costituzione è bella, ma ha settant’anni” – il sistema consacrato nella Carta.
In questo senso, la riesumazione del “presidenzialismo all’italiana” (promossa da Berlusconi al culmine dei “Tic-Toc” agostani e da sempre condivisa dai colonnelli di Giorgia) sembra perseguire un duplice obiettivo: da un lato, vuole rafforzare il ruolo dell’Esecutivo introducendo – attraverso la previsione di un Presidente della Repubblica eletto direttamente dai cittadini, nelle cui mani finirebbero col cumularsi la facoltà di nomina e di revoca dei ministri, il ruolo di titolare dell’indirizzo politico del Governo e il potere di sciogliere le Camere – una sorta di Giano bifronte destinato a mandare in soffitta il modello della democrazia parlamentare. D’altro lato, mira a privare il sistema di una valvola di garanzia – quale quella costituita dalla figura del Capo dello Stato nell’attuale assetto – dimostratasi, nel corso degli anni, non a caso idonea a porre un freno alla ubris della maggioranza politica contingente, ora arginando le esondazioni del legislatore rispetto all’alveo del dettato costituzionale (come nel caso del famoso “decreto Englaro”), ora paralizzando le scelte poco in linea con i valori espressi dalla Carta (si pensi alla fermezza con cui tanto Scalfaro nel 1994 quanto Mattarella nel 2018 hanno paralizzato la corsa di Cesare Previti e Paolo Savona al vertice dei ministeri della Giustizia dell’Economia).
Ma soprattutto l’entrata in vigore del “presidenzialismo all’italiana” potrebbe dare luogo a una pericolosa sovrapposizione tra il sistema costituzionale e l’immagine della piazza plaudente immortalata dal Capo di turno dopo l’ennesimo comizio ad alta aggressività: un sistema senza più argini all’imperversare di saluti romani e del sovranismo gladiatorio gridato all’indirizzo degli arcinemici di Bruxelles; un sistema senza più limiti in grado di contenere nel perimetro della normale dialettica democratica il dilagare, già distintamente percepibile, della ubris della maggioranza politica contingente.
Un sistema tutto imperniato sul mutevole andamento dei rapporti tra il leader e la piazza che lo sostiene: di fatto esposto alla mercè della ubris del selfie.