La mente umana funziona per associazione di pensiero.
Riconduciamo, rapportandola, ogni cosa a qualcosa già veduto o vissuto: un film, una band, un volto, un suono, un sogno, un sapore, una sensazione, una percezione, una persona, una pandemia globale.
Il cervello umano s’è così evoluto per fare i conti con l’ignoto, superandone il timore, provandolo a controllare, simulando il già conoscerlo.
Il COVID-19 non fa eccezione: per trovare inconscio conforto conoscitivo, stante la mortalità (relativamente) elevata ad accompagnarlo, ci si è affrettati da più parti a paragonarlo al secondo conflitto bellico mondiale del 1939-1945.
Una sesquipedale sciocchezza, naturalmente, surrogato stolido ma subitaneo di social e media non potendo per via da un lato d’una mancanza di fonti avvaloranti, da un altro per una mancanza di permanenza nell’immaginario collettivo, paragonare la pandemia di coronavirus a quella dell’influenza cosiddetta “spagnola” del 1918-1920 – peraltro sproporzionatamente dissimile, avendo falcidiato oltre 500 milioni di persone facendo oltre 50 milioni di vittime tra esse, in una Terra la cui popolazione totale non arrivava, coi suoi 1,8 miliardi di persone, a un quarto di quella d’oggi. Il coronavirus come carcadè, autarchico assembramento di similitudini sciagurate. Tant’è.
Dopodiché, a ruota – ruota qui intesa come quella del supplizio di Guy Fawkes il 31 gennaio 1606 a Westminster – a dispetto di un inabissamento repentino a crollo verticale dei ‘no vax’, un esplodere di inquisizioni più sciocche che sante, in cerca di un capro espiatorio (che ha effetto ben più placebo d’un vaccino, per definizione, il tutto parallelamente) di volta in volta, di vento in vento diverso come il runner, il giovane in quanto tale, la forza dell’ordine in quanto Stato e infine, nadir del buonsenso civico, lo Stato stesso: sospettato colpevole di voler auto commissariarsi ricostituendosi come Stato di polizia, grande fratello del controllo, il tutto soltanto perché si è controllato chi poteva andare a infettare sé o gli altri, e perché s’è prodotta a beneficio di tutti una app che banalmente funziona (e NON traccia con il GPS).
S’è tradotto in malo modo 1984 di Orwell e si è travisata in malafede la compressione dei diritti individuali in realtà come libertà di fare i comodi propri, singoli, a scapito dei simili.
Si è data comunque prova – particolarmente lodevole e pregiata in un Paese naturalmente incline all’espansivo contatto sociale, antropologicamente refrattario al seguire pedissequamente regole a cominciare dal banale rispetto più rigoroso d’una fila – in massima parte d’una grande compostezza, adiuvata da una risposta del Governo giocoforza caotica nella comunicazione e decretazione d’urgenza a ripetizione, a valle del caos improvvisamente deflagrato, ma di indubbia perizia e riconosciuta efficacia – in particolare nel silenzio operoso dei ministeri di Salute e Innovazione – da parte dei partner europei (che per associazione di pensiero e azione, in questo caso salvifica, hanno adottato le misure italiane che han fatto scuola) via via fino ad arrivare all’Organizzazione Mondiale della Sanità.
Cadde anche Karl Marx, nell’inganno dell’associazione di idee, nell’equivoco dei fantomatici cicli e ricicli della storia, quando definì il passato a lui anteriore come ingiustizia sociale, il presente (XIX secolo) come foriero d’esplosive contraddizioni e infine il futuro, dunque XX e XXI, come l’avvento della giustizia sulla Terra.
Ebbene, è pur vero tuttavia che un inganno non può durare troppo a lungo, un trucco non può esser creduto in eterno, ed ecco che la fase di passato di ingiustizia sociale s’è non solo prolungata ma acuita, e la fase presente di esplosione di contraddizioni sta ingrossandosi e sta insistendo impattando più profondamente nella maggiore e crescente divaricazione di diseguaglianza sociale, economica, persino sanitaria se guardiamo ai grandi e grandemente svergognati movimenti macroeconomici e geopolitici per accaparrarsi accesso e primo privilegio, incestuoso ius primae noctis pubblico-privato al vaccino.
Non aveva, tuttavia, del tutto (affatto) torto Marx alla radice del riscontrare la necessità indifferibile (già allora, persino e ben prima) di strappare, la radice, delle diseguaglianze umane; aveva ragione da vendere a prevedere l’opportunità di un progresso che non facesse rima baciata, e anche qui incestuosa, con profitto, nel precorrere un tempo di divaricazione del diseguale tale che il tessuto sociale neanche più demarcatamente euroccidentale bensì drammaticamente mondiale è andato completamente a sfrangiarsi, criticamente a strapparsi.
Paradossalmente, persino l’opportunità di abbattere i divari che distanziano socialmente le persone (e parlando in questo caso virtuale, ciò non può essere desiderabile), come quello del diritto ormai essenziale alla connessione, può tramutarsi in un’occasione non tanto di dare a tutti pubblica libertà di elaborare ed esprimere i propri pensieri, quanto di dare a pochi privati la possibilità di raccogliere e rivendere i nostri dati.
È ciò da cui ha messo in guardia Shoshana Zuboff nel suo “Il capitalismo della sorveglianza” (LUISS University Press, 2019), assieme al “Il Capitale nel XXI secolo” (Bompiani, 2014) di Thomas Piketty il testo più cruciale e prezioso del decennio trascorso.
D’altra parte, è pur vero che un approccio di ostilità pregiudizievole – pur con qualche trascorso terribilmente avvalorante, vedi lo scandalo Cambridge Analytica – nei confronti dei GAFA (Google, Amazon, Facebook, Apple) può da un lato non portare a niente se non tutt’al più a una qualche sconfitta tra le Scilla e Cariddi di pervasività e profitto, da un altro a perdere l’opportunità di normare, legiferare, per far sì che la (legittima) pratica privatistica si pieghi al pubblico progresso (sacrosanto).
Quello che pare a un occhio non disattento né facilmente prono a distrarsi per associazione, è un cambio di paradigma progressivo che non contempli tanto un abbandono del conflitto, quanto piuttosto una rielaborazione dello stesso in chiave di levantina conquista (di diritti) in luogo di livida contrapposizione (di dottrine).
È paradigma popolare, quello di un progresso nuovo e indifferibile, che già permea il piano del politico, se è vero che da almeno un lustro sono deflagrati fenomeni parapopulisti come, nell’anno spartiacque dell’euroccidente 2016, Brexit e Trump, fenomeni che se non in ultima istanza una risposta di cui il ‘popolo’ con ogni probabilità beneficerà, quantomeno con assoluta certezza non andranno a replicare e perpetuare schemi ciclici, riciclati, arcimarciti e ultratossici di un moderato mondo liberal–élitario ampio ombrello e stretto cappio attorno a vite di quieta disperazione, per dirla à la Henry David Thoreau. Disperazione e diseguaglianza, moderata e massima, alle quali il popolo risponde con radicalità, l’unica risposta adeguata al tempo, allo spazio, alla crisi mondiale, al popolo tutto.
La reazione alla reazione, del sistema a preservare e provare a perpetuare sé stesso, se oltreoceano sembra essere quella di chiudersi a istrice e nominare, per contrastare il populismo destroso di Donald Trump, un maschio bianco moderato conservatore centrista quasi ottantenne amico dell’establishment e sodale del passato, “Sleepy” Joe Biden, nel Vecchio Continente au contraire pare essere quella di schiudersi a iris, e con buona pace di Paesi Bassi o piccole germanie, la Germania della Gran Cancelliera Angela Markel apre al Recovery Fund, che potrebbe costituire tanto un suo lascito quando un lasciapassare per non far passare a miglior vita l’Unione Europea, e continuare il proprio viaggio, raddrizzando un po’, e finalmente, la barra.
Bara benedetta tra le tante europee del mondo vecchio e sepolto, il primo Governo coalizionale post-franchista, PSOE-Podemos, che in Spagna propone e vede accolta con naturalezza oltreché necessità la proposta del reddito minimo vitale. Peraltro prefigurando una populista (di sinistra, claro) patrimoniale sulle grandi ricchezze, che riecheggiando il filosofo contemporaneo Frédéric Neyrat nel suo “Biopolitique des catastrophes” (biopolitica delle catastrofi, inedito in Italia), nel loro essere artefici, burattinaie e beneficiarie del sistema dell’industrializzazione capitalista hanno con essa prodotto la catastrofe, intervenendo per puro profitto nelle dinamiche del ciclo alimentare, particolarmente nell’allevamento intensivo, o meglio insostenibile, per non entrare nello specifico dell’abominio cinese dei “wet market” dove s’è originato il virus. Ennesimo schiaffo degli auspicabilmente innumerevoli a venire, presto e in successione rapida, al There Is No Alternative, spettro che si aggirava per l’Europa col muro di Berlino ancora in piedi, e contagiava, con conseguenze queste sì funestamente paragonabili al coronavirus, le fragili, friabili socialdemocrazie – tale slogan della Thatcher fu ripreso persino da Schroeder – che a ben vedere era il più ampio spettro del capitalismo, capitalismo neoliberista che non solo non ha poi fondato sulle macerie del muro il migliore dei mondi possibili, ma tutto sommato e con gran naturalezza neppure l’unico, nell’unico sistema, possibile. Il capitalismo riformista, (auto)definito così come specchietto per le allodole di sé stesso, non è riformabile che con radicalismo, in luogo di riformismo. Con la radicalità in cui in una dozzina d’anni gli eventi, dalla crisi dei subprime del 2008 alla pandemia del coronavirus nel 2020, hanno precipitato il mondo, facendo crollare il Muro che, a ogni buon conto, il Capitale aveva eretto sulle macerie del muro, nel solco del profitto privato, con la calce della diseguaglianza sistemica e sistematica. Un muro talmente spesso e sordo e alto al di là del quale non parava di potersi sentire, vedere, ricostruire alcunché. Tantomeno un orizzonte di sinistra popolare che non fosse di emergenza o contingenza e comunque di massimo compromesso, e massima allerta che neanche Pavlov o Macron qualora si manifestasse una fessura nel muro di gomma di politiche non a favore delle persone, dei penultimi, dei poveri. Eppure, come insegna Leonard Cohen, c’è una fessura in tutto, per quanto infinitesimo e insperato, ed è da lì che entra la luce. Che com’è noto, d’altra parte, è preceduta dall’ora più buia.
Se si pensa a quanto si pensasse male in Italia ai tempi del governo giallo-verde – anche da dentro quello stesso Governo lato Salvini – del reddito di cittadinanza a 5 Stelle, oggi improvvisamente inseguito da (centro-)sinistra con tanta foga che non pare impensabile superarlo con un reddito di emergenza, e se si pensa in tempi ancor più recenti quanto paresse spregiudicato un Presidente di un Governo comunque giallo-rosso che sceglieva di non accettare senza condizioni il MES con condizioni, rilanciando proprio una battaglia (ben più) popolare come il recovery fund, e se si realizza quanto già il MES paresse un miraggio, mentre all’orizzonte, pur coi tempi dell’Europa burocratica, già sembra scorgersi l’oasi del Recovery Fund, beh, si realizza come tanto stia cambiando, tanto da far pensare che il mondo di Marx non ci sia già più, e nel mondo in cui la sinistra non c’è più da un pezzo, questa possa tornare, a patto però di rompere il patto con il passato, e farne uno con il popolo, uno con il progresso. Che poi è lo stesso. Che poi è la sinistra.