Il dibattito sui partiti politici in Italia ha spesso incrociato l’ambito della cosiddetta “questione morale”, e la politica è stata sovente additata come una sorta di mercato nero frequentato da gangster. La novità, in questi ultimi tempi, tuttavia, è che la “questione morale” è divenuta una sorta di “questione tecnica”. L’accusa che adesso si rivolge ai politici è quella di essere incompetenti e di essere solo capaci a “litigare”. A essi si oppongono i “tecnici”, i migliori, i competenti, quasi sempre economisti, capaci invece di trovare “la” soluzione ai problemi, quella davvero efficace, l’unica possibile. Una soluzione frutto di scienza, che ridicolizza le opinioni politiche capaci solo di azzuffarsi, anzi di creare soltanto una sorta di “rumore di fondo” (come lo ha definito Tommaso Ciriaco su ‘Repubblica’) buono soltanto a disturbare il lavoro dei manovratori, a cui abbiamo affidato speranzosi la diligenza italiana dopo averla sottratta a un conducente colpevole di essere a capo di una maggioranza politica.
La stampa e l’informazione (quasi tutta) accreditano con molto piacere questa immagine della politica come territorio di inetti, mentre magnificano (ovviamente) il lavoro dei professori. Doxa contro episteme, ma tutto a vantaggio della seconda. La raffigurazione è plastica: dinanzi a noi i “migliori”, curvi sul tavolo tecnico alla ricerca della soluzione; dietro o di fianco le disgustose risse politiche, anzi “tra i partiti” (tutti uguali, senza distinzione), intenti solo al calcolo dei propri interessi di bottega. L’effetto che questa operazione produce sull’opinione pubblica è disastroso, persino diseducativo, ma funziona. Sono di meno quelli che additano i politici definendoli ladri, sono sempre di più quelli che dicono: meno male che ci sono i tecnici, così almeno si fanno le riforme (quali, che tipo di riforme appare marginale: la parola “riforma” ormai fa contenuto di per sé, va oltre la sua sostanza effettiva, è un termine passepartout). Sappiamo solo che le riforme devono cancellare la “burocrazia”, allisciare la giustizia, appiattire la progressività fiscale. Devono cioè facilitare il lavoro delle imprese, le sole colonne portanti della società. Semplificare è un dogma: l’unica ricetta (anche qui) davvero efficace per far ripartire la crescita è rilanciare le imprese. Con il mito che un po’ di ricchezza “trabocchi” verso la base sociale (una novità assoluta eh, una cosa mai vista; ve lo ricordate Gaber quando magnificava le cose nuove in Anche per oggi non si vola? Ecco, una roba così).
Il confronto tra tecnica e politica sembra deciso tutto a vantaggio della prima. Se qui patiamo una sconfitta, non è tanto politica, alla quale c’è sempre rimedio, quanto culturale. Anche la sinistra si sta convincendo che i “migliori” sono “migliori” dei “peggiori”, che i politici litigano, e che una persona sola al comando (purché brava e vincente) possa fare di più e meglio delle istituzioni politiche intese nella loro complesso articolazione democratica. La politica da ladra è diventata, insomma, una palla al piede, un freno allo sviluppo. E con essa i partiti, che della politica sono la “nervatura”, e così della vita civile. I partiti, nel tempo, sono diventati prima leggeri, aziendali, personali, filiformi, mediatici, e poi, nell’opinione pubblica, direttamente inutili, anzi dannosi all’interesse del Paese. Il potere scema verso il dirupo delle categorie e dei territori. La cosa pazzesca è che i partiti qui sono i carnefici di se stessi, così come la politica, perché accettano supinamente questo loro destino scritto dagli avversari.Si adeguano allo spirito del tempo, anzi: pensano addirittura scioccamente di poterlo cavalcare: perché lasciare la tecnica ai tecnici? Già, perché?
Il Covid ha persino accelerato questo processo, quest’idea che la scienza possa (debba, anzi) “prendere il potere”, che la tecnica soltanto possa “risolvere” il nostro destino e salvare le nostre vite, che la politica debba fare largo al Migliore, che le procedure, i controlli, le regole (cioè la “burocrazia”) impediscano lo sviluppo, che le imprese debbano essere liberate da lacci e lacciuoli, che tutto debba allisciarsi, senza nemmeno un po’ di “rugosità” democratica, senza nulla, solo soldi pubblici che scorrano diritti verso l’economia oppure, viceversa, che non scorrano verso il fisco. E lo Stato, fino a ieri un vero accollo, oggi è invece diventato il “pagatore” che mancava, quello che distribuisce risorse, bonus, ecobonus, superbonus, meglio se direttamente alle imprese, con un solo “click” come si dice al tempo del “dare” che non è il tempo del “prendere”. Facendo bene attenzione a non ri-statalizzare, a non illudersi che la sanità pubblica possa diventare ancora più centrale nel sistema della cura, per fare un esempio.
Siamo orgogliosi, certo, che il ministro Speranza rappresenti la nota stonata di questo concertino, che testimoni fattivamente lo spirito pubblico, ma il dato di fatto è innegabile. Stiamo assistendo all’ultimo atto di una tragedia pubblica che viene da lontano. Dove la politica ha dapprima assunto la forma della zavorra e poi è stata messa da parte, per non disturbare quelli bravi. E la politica è valutazione, scelta, indirizzo, confronto/scontro di opinioni, rappresentanza, direzione, coagulo della società civile, partecipazione organizzata, mica uno scherzo. Senza di essa tutto si impoverisce e si semplifica in senso deteriore. Tutto fa cortocircuito. Talché il Covid diventa solo una questione di coprifuoco, di vacanze e di apericene. E le persone soltanto bancomat per rilanciare il consumo. E le imprese i terminali di ingenti risorse in debito che qualcuno dovrà poi ripagare (i soliti noti, senza dubbio). E il fisco il campo dei miracoli di elusori ed evasori. E la P.A. solo spreco e burocrazia. E le riforme l’oggetto magico delle narrazioni proppiane, magico perché sono una parola di cui nessuno conosce il contenuto (anche perché l’informazione alza una cortina fumogena di notiziole a sua protezione). Come dice Repubblica: non saranno i partiti a ridisegnare il fisco. Anzi, i partiti fanno solo tanto rumore per nulla. Zittiscano. Si limitino a mimare il dibattito pubblico. Anzi, facciano comunicazione sui social, in tv, lanciando ideone. Ma lascino lavorare i solutori di problemi, i migliori, quelli che ci salveranno.
Forse è ora che qualcuno si assuma l’onere – meglio, l’onore – di rimettere in ordine almeno il senso della Costituzione Repubblicana e ridare una prospettiva a questo paese che non può passare per una surroga, silente e carsica, della Costituzione. E si incarichi, una volta per tutte, di affermare, avendone titolo e con perentorietà, che siamo abbastanza stanchi di queste “novità” propinateci da almeno un trentennio, che hanno generato solo disastri, economici e sociali, ripagati sempre dai soliti noti al fisco (che non sono quasi mai tecnici e men che meno potenti). Ci ridiano comportamenti e politiche che sanno di stantio, che sappiano di vecchio: ma che rispettano democrazie e principio di eguaglianza. Un insieme di Articolo Uno e di Articolo Tre.