C’è una ragazza al di qua di una sbarra che prega, preme per poter superare quella sbarra di ingresso e potersi rinchiudere al di là, in quel luogo.
Il luogo è San Patrignano, il momento è catturato nella nuova docuserie Netflix “SanPa: Luci e Tenebre di San Patrignano”.
È giovane, naturalmente bellissima, e disperatamente distrutta dall’eroina, che le rallenta i pensieri e l’articolarli in parole, ma per un attimo ha un sussulto.
Lì fuori con lei e altre centinaia e centinaia di giovani che da anni e per anni ancora si assiepano disperati quanto determinati, s’assembrano convinti, premono pazienti e incrollabili anche per settimane – anche perché già crollati, alcuni da tempo – per poter essere rinchiusi nella comunità di recupero per tossicodipendenti più grande d’Europa, e con essi ci sono tanto freddo, ultime spiagge, grandissime aspettative e diversi giornalisti. Uno di questi chiede alla ragazza se sia pronta ad esser messa anche in catene, se necessario, per superare la fase di astinenza fisica e psicologica dall’eroina: lei come se in un colpo di reni e nervi riacquistasse i sensi, tra essi quello istintuale di autopreservazione, chiede dubbiosa e all’apparenza refrattaria se si intenda proprio “le catene, come nella prigione di prima”. Non è dato sapere se alluda a una sua esperienza carceraria pregressa, alle catene invisibili dell’eroina, a quella che è solo nel suo immaginario la prigione o in accezione ancor più ampia, inconsciamente, un senso generale di costrizione, di prigionia che per un istante, più o meno lungo, teme di rischiar di non lasciare alle spalle. L’istante successivo prosegue nella sua risposta e senza soluzione di continuità o lucidità al netto di droga e paura dice che sì, se necessario, per liberarsi una volta per tutte dalla “scimmia”, dalla sua schiavitù, è disponibile anche a rinunciare alla propria libertà per il tempo necessario.
In un altro momento della docuserie un dirigente di San Patrignano spiega la necessità del coraggio di non vedere tutto in termini di bianco e nero, libertà o prigionia, ma del pur delicato e difficile discernere tra le zone grigie, i chiaroscuri della lotta contro eroina e cocaina, e gli strumenti a volte inortodossi utilizzati per strappare dalla morte migliaia di ragazzi.
Poi, in un terzo momento, e in tanti altri – in effetti in tutti, come presenza fisica o aleggiante – c’è lui: Vincenzo Muccioli. Personaggio larger than life, vulcanicamente controverso, televisivamente proto-berlusconiano, politicamente ecumenico, religiosamente fedelissimo a sé stesso soltanto, felliniano e faustiano, romagnolo ed empireo, sregolato e stregonesco, un po’ samaritano un po’ santone, un po’ padre e un po’ padrone.
In un passaggio che con efficacia pare giustificare i metodi spiccioli, quando non quasi spietati, adottati per costringere i drogati a salvarsi la vita, Muccioli osserva come se uno sta per buttarsi giù da un ponte, non è che puoi dirgli “beh, dai, non farlo che magari puoi farti anche male”, né tiri fuori la normativa in vigenza o cominci a leggere un dispositivo di sentenza: la sentenza è già scritta, basta un secondo, un salto per ‘leggerla’ ed eseguirla, dunque l’unica maniera per evitare la morte è bloccare la persona contro la propria volontà e impedirgli di muoversi, di buttarsi, di ammazzarsi.
In uno dei processi che lo videro imputato per via dei metodi anche coercitivi con cui Muccioli letteralmente incatenava i drogati alla vita, il collegio giudicante d’appello, ribaltando la sentenza di condanna di primo grado, sentenziò che i ragazzi in questione erano capaci di intendere, ma di volere solo in parte, e non di volere il proprio bene.
Il confine sottilissimo tra libertà e libertà, tra libertà e vita, ci suggerisce un parallelismo palese con le pandemie presenti, quelle virali così come quelle polemiche alle prime connesse circa le libertà personali.
La libertà può essere solo assoluta, illimitatamente, anche paradossalmente fuori dalle forme e dai limiti della Costituzione in contrasto pertanto con l’Articolo 1 della stessa? Dando carne e sangue ai precetti di Kant e di King circa la libertà della persona e il non travolgere con essa quella altrui, il “film” distopico che va avanti da un anno e l’opera documentaristica uscita in queste ore ci danno da pensare: sono libero, pur di esercitare la mia libertà ad ogni costo e a tutti i costi, di arrecare danno a me stesso, vedi SanPa, o di arrecarlo agli altri, vedi CoVid?
Il concetto di inviolabilità corporea, corpo che in oriente è concepito come un tempio di fortezza, in occidente come una vetrina di fragile apparenza, corre parallelamente a quello predominante occidentale di libertà individuale, preponderante orientale di superiore interesse per l’utilità sociale.
Entrambe le idee sostanziali assumono forme estreme, divergenti ma similmente deleterie di distorsione e distruzione, come il salvare sé stessi anche sulla pelle degli altri da questa parte di questa sbarra, o da quell’altra parte il suicidarsi se non ci si sente più utili alla società produttiva, vedi anziani in Giappone con recenti echi sinistri sino a Genova.
La pandemia ha estremizzato persino questi estremismi: ancora rispettivamente di qua sulla pelle degli altri non più e non soltanto si prova a salvare il solo sé, ma addirittura a preservare il proprio divertimento, il proprio “diritto” al festeggiare, all’assembrarsi, al contagiare, al comprimere pressoché direttamente il diritto alla vita degli altri; di là non c’è più solo la scelta di un sacrificio individuale per un dubbio beneficio sociale, bensì una privazione di libertà e alle volte della vita stessa, vedasi le persone contagiate da coronavirus isolate e abbandonate rinchiuse a forza e a chiave dalle autorità cinesi in celle della dimenticanza e spesso della dipartita.
Vita, libertà, concetti fondamentali a cui aggiungere un altro.
Se la libertà è un concetto storicamente collocabile a destra (libertà individualista, libero mercato, libera iniziativa di interesse superiore a quello statale o comune, liberismo e neoliberismo), a sinistra è senz’altro individuabile quello di uguaglianza, e qui e ora più che mai di pari accesso alle cure, eguale opportunità e ad esempio parlando di San Patrignano eguaglianza per gli emarginati, come più di chiunque altro e più che mai prima e dopo erano i tossici degli anni ’70 in Italia, ancor peggio quando molti di essi ebbero a circolare nel proprio sangue il virus dell’HIV in un tempo in cui per un virus terrificante non c’era prospettiva di cura alcuna, non c’era secondo di salvezza o sentenza che non di morte, e ben i due terzi degli ospiti di San Patrignano contrassero il virus ma anche allora la risposta non fu di emarginare gli emarginati, ma di costruire un ospedale per prendersi cura anche tra loro gli uni degli altri.
Un merito che le comunità di recupero ebbero, tra luci ed ombre, è lampante: è quello di essersi fatti casa e carico di quello che lo Stato non poteva, e comunque non voleva, affrontare: eroina e AIDS. L’aver iniettato vita nuova nelle vene di migliaia di ragazzi sull’orlo del baratro e del buio e che poi poterono spiccare il volo, o quantomeno camminare a testa alta, fu pur tra macchie, anche di sangue, un valore indelebile di San Patrignano e del fondatore Vincenzo Muccioli, e il prezzo della parziale, temporanea privazione della libertà personale non solo dal punto di vista giuridico, come da sentenza ricordata, cosa giusta, ma dal punto di vista umano salvifica, e quindi due volte giusta. Comunitaria. Comunista. Tutti uguali e ci si salva solo se ci si salva tutti assieme, dunque si salvi chi (tutti quelli che) si può, a tutti i costi e ad ogni costo, persino a qualche catena.
Più di sinistra che di destra, pur nella paradossale ostilità del PCI dell’epoca.
Paradosso nel paradosso come già John Locke, padre del liberalismo classico, per primo fissava come nella gerarchia delle libertà la prima fosse quella alla vita di ogni membro d’una comunità, e solo seconda, e solo in conseguenza, venisse quella personale.
Così similare e pur così diverso il discorso dell’oggi, con (per fortuna una minoranza di) persone che gridano alla dittatura sanitaria, alla privazione delle libertà personali e di impresa, disconoscendo e calpestando il primato della vita – di tutte e tutti – quando un personaggio che più diametralmente diverso da Vincenzo Muccioli non potrebbe essere, Roberto Speranza, annuncia (intelligentemente, data la contrapposizione tra tifoserie dilagante e potenzialmente deflagrante) la non obbligatorietà del vaccino e dispone sacrosante limitazioni di movimento, assembramento e contagio e insomma malattia e morte affinché tutti siano eguali in vita, prima ancora che in libertà e diritti, anche a divertirsi. E fa questo senza incatenare nessuno, ma nel pedissequo, pieno rispetto della Costituzione e ancora della vita umana.
C’è un’ultima immagine. In realtà non si trova nella docuserie, ma ritrae un’altra ragazza, bella coma la prima: si chiama Fiorina. Nata nel 1913, il prossimo 13 gennaio compirà 107 anni. Si è vaccinata tra le prime contro il coronavirus al di là della sbarra di una RSA mentre usciva “SanPa”, avendo la fortuna, come noi tutti, di poter disporre di una cura contro questo male invisibile e per molti versi ancora oscuro, ancora mortale.
Ecco: vacciniamoci, tutte e tutti. Non solo per noi stessi, neppure soltanto per gli altri, ma per tutti quelli che non hanno trovato questa fortuna, e hanno perso in più modi, da più ponti, la lotta per la vita. La più degna d’esser combattuta e vinta, la più importante da venir vissuta.