In un’intervista a Scalfari del 2 agosto 1978, quella sulla ‘legittimazione democratica del PCI”, Enrico Berlinguer affronta, a nostro parere, il tema dei temi. Quello delle strategie di governo di una società complessa, moderna, articolata tipica di un Paese occidentale. E paventa un pericolo: che si possano coagulare “forze moderate, conservatrici e della destra reazionaria con basi di massa”, ossia che la destra possa raccogliere attorno a sé il cosiddetto ‘popolo’ e, in virtù di tale adesione di massa, insediarsi al governo. La storia ha dimostrato come quel timore berlingueriano sia divenuto realtà e come la destra italiana (nelle sue forme moderate o radicali) abbia saputo raccogliere consenso negli strati sociali più bassi (e segnatamente tra gli ultimi) per accedere trionfalmente a Palazzo Chigi.
C’era un modo, secondo Berlinguer, per impedire che ciò potesse accadere, ed era un accordo tra le grandi forze sociali e politiche, l’assunzione di una “comune responsabilità” come la definisce lui stesso, nell’intento di fare argine all’avanzata della destra e, soprattutto, porre le basi per una trasformazione del Paese. Questa strategia aveva un nome impegnativo ma forte, all’altezza del momento storico, ed era “compromesso storico”. Le cronache di quegli anni hanno mostrato quanti nemici avesse questo appello alla “comune responsabilità”, dentro le istituzioni e nei covi brigatisti. E soprattutto hanno rivelato come il coagulo di massa a destra vi sia stato più di una volta, e con molta energia proprio in quest’ultima devastante fase politica. Berlinguer polemizzava soprattutto con chi propugnava una strategia frontista, di alternativa secca a sinistra, con chi puntava al famoso “51%”, pensando che bastasse lucrare su maggioranze risicate o dopate dal maggioritario per trasformare il Paese sotto la spinta e il consenso delle masse, del ‘popolo’ italiano, dei lavoratori uniti.
La storia successiva, il bipolarismo, le leggi maggioritarie, i premi di maggioranza, i leaderismi, i personalismi, la fine dei partiti, il dominio mediatico, la suddivisione radicale del Paese tra centrodestra e centrosinistra, dove nessuna comune responsabilità albergava più tra i diversi schieramenti, hanno portato acqua a mulini opposti rispetto a quelli che indicava Berlinguer. La Costituzione ha cessato di essere un cemento comune, diventando una legge contendibile, su cui ci si è battuti anche in termini radicali, a destra come a sinistra. Uno schieramento diventava rigidamente alternativo all’altro non solo per il programma politico, ma per i valori, le idee, le convinzioni profonde, le discriminanti di fondo: per carattere antropologico, vorrei dire. Basti ricordare, a questo proposito, la secessione, il nord contro il sud, lo sdoganamento del neofascismo, la critica aperta alla Costituzione, l’attacco alla progressività fiscale, la devastazione dei principi di solidarietà e di accoglienza divenuti atti di governo e materia da diretta facebook.
La sofferenza italiana, dunque, non è solo strutturale (la crisi, le contraddizioni di fondo, le fenditure sociali, le vecchie e nuove povertà, le vecchie e nuove disuguaglianze) ma riguarda anche la sua anima profonda, le sue nervature culturali, il suo spirito, persino la sua umanità. Siamo nell’impossibilità, oggi, di cementare una “comune responsabilità”, di pensare l’Italia come un Paese unito, di pensarci italiani in termini non astrattamente nazionalistici, ma per afflato culturale, nel comune intento di rilanciare l’Italia in termini più giusti. Ed era proprio quello che Berlinguer temeva. Il compromesso storico fu una grande operazione politica, culturale, morale, pensata per unire cittadini, lavoratori, forze politiche e sociali attorno a un progetto di trasformazione e di rinnovamento generale. Poco contava chi stesse al governo se l’approccio fosse stato davvero condiviso, con valori solidali e riferimenti di base comuni. Con la nuova stagione (la destra al governo, il frontismo, il gap culturale, la rincorsa della ‘vittoria’ a tutti i costi, anche al fotofinish) abbiamo assistito invece a un laceramento, a uno strappo forse senza ritorno, anche con la complicità (e forse più) della sinistra.
Che fare? Salvaguardare i principi della democrazia rappresentativa, la forza democratica di un sistema dei partiti, la supremazia della politica sulla comunicazione, la partecipazione organizzata e associata invece dell’individualismo sfrenato – esaltare ciò che unisce rispetto a ciò che divide, il lavoro comune rispetto alla personalizzazione politica, le istituzioni democratiche rispetto alla frammentazione, un grande e saldo ‘Io’ collettivo rispetto a tanti “piccoli Io” irrelati e prepolitici. Non sono, queste, astrazioni ma le basi di un progetto pronto a fare i conti con la realtà, assumendone i mutamenti, com’è ovvio, cogliendo le innovazioni positive, radiografando la nuova struttura sociale. Pronti, tuttavia, a operare per una trasformazione destinata a sanare ingiustizie e povertà, non ad adeguarci in termini disincantati a quanto ci viene offerto dal mercato. Si tratta di tessere le fila, di ricomporre il discorso pubblico, di rimettere in campo i soggetti attivi di questo mutamento, di ridare forza alle istituzioni, anche se la chiacchiera più in voga (e l’ideologia dominante) è pronta a indicare l’impossibilità di ogni mutamento. D’altronde la sinistra ci sta per questo, per cambiare lo stato di cose esistenti, non per lanciare nella mischia un imprenditore politico di grandi ambizioni, e noi tutti dietro nella speranza di contare e di ‘vincere’. Per poi svegliarci da un incubo, in cui uno strano personale politico mette a ferro e fuoco un Paese di grandi tradizioni, guidandone il declino.