Myanmar, agosto 2017. Miliziani dell’Esercito Arakan per la Salvezza dei Rohingya (ARSA) attaccano postazioni dell’esercito birmano e della locale polizia, uccidendo una decina di membri delle forze di sicurezza birmane. La reazione dell’esercito birmano si traduce in quella che definire durissima rappresaglia sarebbe un vacuo eufemismo, ma che l’Alto Commissario per i Diritti Umani dell’ONU, non più tardi del 11 settembre 2017, ha etichettato come “esempio da libro di testo sulla pulizia etnica”. In circa 60 giorni, oltre 600.000 Rohingya si sono riversati nel vicino Bangladesh. Le immagini satellitari mostrano interi villaggi dati alle fiamme. Le parole di chi è riuscito a varcare il confine bengalese raccontano di stupri, uccisioni e violenze indiscriminate. Per descrivere l’enorme spostamento di persone in molti hanno utilizzato la parola esodo, in questo caso da intendersi nell’accezione letterale del termine. L’Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite (UNHCR) spiega che, dati alla mano, la fuga dei Rohingya in Bangladesh è la crisi di rifugiati con il più rapido livello di sviluppo al mondo. Considerando le oltre 200.000 persone già presenti, poco meno di un milione di Rohingya sono ammassate in campi sfollati e insediamenti spontanei in uno dei paesi più poveri del continente, ma con i tassi demografici più alti del mondo. Alla tragedia dei rifugiati in Bangladesh si aggiunge l’oblio di un numero imprecisato di sfollati che si presume non abbiano varcato il confine e che siano rimasti intrappolati in una sorta di no man’s land all’interno del territorio birmano.
Quella dei Rohingya è la storia di una ferita non sanata, che porta con sé una serie di interrogativi inevasi che affondano le proprie radici nel passato coloniale del Myanmar – già Birmania – e che sono indissolubilmente legati al lento e faticoso percorso di transizione democratica che il paese sta provando ad intraprendere.
Chi sono i Rohingya? Con questo termine si fa comunemente riferimento alla principale minoranza etnica musulmana sunnita residente prevalentemente nella parte settentrionale dello Stato del Rakhine e di lingua indoaria (simile pertanto a quella parlata nel vicino Bangladesh). Prima dell’inizio della crisi, in Myanmar risiedeva circa un milione di Rohingya. A queste persone, che rappresentano il 3% della popolazione nazionale e il 40% di quella del Rakhine, da cinquanta anni non è riconosciuto il diritto di cittadinanza. Sull’origine della presenza rohingya in Myanmar vi è un forte dibattito con posizioni che si sono radicalizzate. Da un lato, la posizione di molti governi birmani è stata quella di sostenere che si trattasse di immigrati irregolari del Bangladesh, arrivati in Rakhine a partire dall’epoca coloniale e ancora più massicciamente dopo l’indipendenza del 1948 e la guerra di liberazione del Bangladesh del 1971. D’altra parte, i Rohingya sostengono di essere i diretti discendenti dei mercanti islamici giunti sulle coste del Arakan – antico nome del Rakhine – a partire dal VIII secolo.
Un’indiscutibile presenza musulmana in Rakhine si registra già nel XV secolo quando il regno arakanese di Mrauk U era sotto il protettorato del Sultanato del Bengala, mentre le prime tracce del termine “Rooinga”, per descrivere i nativi di confessione islamica dell’Arakan, si ritrovano in un testo inglese risalente alla fine del XVIII secolo. Tuttavia, è a seguito dell’annessione del Rakhine all’impero britannico nel 1824 che viene incentivato massicciamente l’ingresso di immigranti provenienti dal Bangladesh allo scopo di disporre di manodopera agricola. Se l’immissione di migranti indiani e bengalesi avvenne su scala nazionale, la questione divenne ben presto problematica in Rakhine, che era una delle aree meno densamente popolate del paese e dove il fenomeno venne avvertito come una minaccia da parte della maggioranza birmana buddista. Di fatto si può sostenere che una presenza di rilievo vi fosse già prima del 1823 e che la maggior parte della comunità Rohingya fosse residente in Myanmar prima dell’indipendenza nel 1948.
Come paventato dagli inglesi, la convivenza tra le due comunità divenne ben presto fonte di tensioni. Durante la II guerra mondiale, a seguito dell’occupazione giapponese della Birmania e ad alla fuga degli inglesi dal Rakhine, si registrarono violentissimi scontri tra miliziani buddisti e Rohingya. Al termine della guerra si erano creati movimenti rohingya separatisti che avevano richiesto in maniera piuttosto velleitaria l’annessione con l’allora East Pakistan. Successivamente all’indipendenza birmana del 1948, i Rohingya furono dapprima considerati integranti del neonato stato e alcuni loro rappresentanti vennero anche eletti in Parlamento. Inoltre, la maggior parte degli storici concordano sul fatto che, in tale periodo, benché il termine rohingya si stesse vieppiù diffondendo, questo veniva alternativamente utilizzato ad altri quali musulmani bengalesi e/o arakanesi.
Con il colpo di stato del generale Ne Win del 1962, le cose cambiano radicalmente e i Rohingya vengono progressivamente esclusi dalla vita politica e dalla società birmana. Verso la fine degli anni ‘70, circa 200.000 Rohingya furono obbligati a varcare il confine con il Bangladesh a seguito di quelle che Human Rights Watch descrisse come ‘ripetute violenze e intimidazioni da parte dell’esercito birmano’. Dopo un faticoso negoziato con il Bangladesh e con le Nazioni Unite, venne consentito ai rifugiati di rientrare in Myanmar.
Nel 1982 fu promulgata la Legge sulla Cittadinanza che, di fatto, sanciva l’impossibilità per i Rohingya di essere riconosciuti come cittadini birmani. A tutti gli effetti, la legge definiva l’intera minoranza musulmana di origine bengalese come migranti irregolari, non appartenenti a nessuna delle 135 etnie riconosciute in Myanmar. Lo scarto tra la “cittadinanza dimezzata” del ‘62 e la “cittadinanza impossibile” del ‘82 non è irrilevante. E’ da questo secondo momento che circa 1,3 milioni di persone divennero a tutti gli effetti “stateless”. Ed è dal 1982 che la condizione di marginalità e di isolamento sociale della comunità Rohingya andò drammaticamente deteriorandosi. E non è un caso se è solo per gli effetti della legge del ’82 che il termine Rohingya si consolidò sempre più come l’unico accettato dalla comunità per auto-definirsi. Nel limbo dell’apolidia l’identità si afferma per negazione.
Agli inizi degli anni ‘90 circa 250.000 Rohingya furono costretti nuovamente a rifugiarsi in Bangladesh a seguito di persecuzioni religiose e violenze di vario genere, venendo accolti in campi rifugiati. E da qui prese il via un nuovo complesso negoziato tra UNHCR, il Myanmar ed il Bangladesh. Dacca, in particolare, avviò una politica di rimpatri forzati che l’agenzia ONU fece non poca fatica ad arginare. Ad ogni modo, entro la fine del decennio circa 230.000 persone erano ritornate in Rakhine. Questi dati non vogliono avere un mero valore statistico, ma servono a dare il senso profondo di un intero popolo immerso nel tempo ma al di fuori dello spazio, di fatto rifiutato da tutti. E’ altrettanto importante capire perché in questa sorta di zona d’ombra esistenziale, senza accesso ai servizi di base, privati dei fondamentali diritti politici ed economici, con la quasi impossibilità di ricevere una istruzione e con libertà di movimento seriamente limitate, germogli il seme dell’intolleranza e della sfiducia nei confronti dell’altro.
Nel 2012 queste tensioni deflagrarono in violente proteste della comunità musulmana e in scontri inter-comunali con la maggioranza buddista. L’esercito, come al solito, fece scattare una durissima rappresaglia. L’onda lunga della repressione delle forze armate dette il via a una nuova diaspora dei Rohingya. Dal 2012 sino all’inizio dell’attuale crisi, UNHCR stimava che almeno 168.000 Rohingya fossero stati costretti ad abbondare il Myanmar. Oltre al tema dei rifugiati, la crisi del 2012 aveva portato con sé la questione altrettanto penosa degli sfollati restati in Myanmar, definiti con l’acronimo tecnico di IDPs. La maggior parte di questi erano stati raccolti in campi e, secondo l’Organismo delle Nazioni Unite per il Coordinamento delle Azioni Umanitarie (OCHA), a giugno 2017, si contavano 120.000 persone alloggiate in 36 campi sfollati in Rakhine, con aree che arrivano ad ospitare più di 50.000 persone.
Esiste un elemento di contesto relativo alle tensioni tra minoranza musulmana e maggioranza buddista in Rakhine che non può essere eluso. Il Rakhine è uno degli stati più poveri del Myanmar e i livelli di inclusione sociale della stessa maggioranza buddista arakanese rimangono estremamente bassi. A questo vanno aggiunti gli effetti disastrosi dei lavori del gasdotto/oleodotto transazionale che collega il capoluogo del Rakhine, Sittwe, con la città di Kunming in Cina. Lavori condotti dalla multinazionale cinese CNPC, avviati nel 2009 e conclusisi nel 2013, con un investimento globale di 2,5 miliardi di dollari, che tuttavia non hanno fatto altro che esacerbare le tensioni. Agli osservatori più attenti non è sfuggito che la generalizzata confisca dei terreni e le condizioni lavorative proibitive abbiano favorito le precondizioni per l’esplosione delle violenze del 2012.
L’elemento di marginalità e di sotto-sviluppo dell’intera regione è un punto ineludibile per comprendere le cause di questa situazione che sono di natura socio-economica prima ancora che etnico-confessionale, sebbene il secondo aspetto si vada radicalizzando. Ed è un passaggio cruciale anche per immaginare le possibili soluzioni, che non possono prescindere da politiche di sviluppo integrato del territorio.
La domanda meno affrontata dalla stampa internazionale è relativa a come la crisi dei Rohingya si inserisca all’interno del quadro istituzionale birmano e del processo di transizione democratica avviato nel paese. In effetti, quando si parla di crisi dei Rohingya, troppo spesso si dimentica di inserirla nel contesto politico nazionale. Il Myanmar è uno stato multietnico, divenuto, come ricordato, indipendente nel 1948. Sono riconosciuti 135 gruppi etnici che fanno capo a loro volta a 8 grandi ceppi etnici. Il gruppo maggioritario è quello bamar, ed è rimasto ininterrottamente alla guida del paese dall’indipendenza sino ad oggi. In tal senso, anche la Lega Nazionale per la Democrazia, il partito del premio Nobel per la Pace Aung San Su Kyi, è espressione del gruppo etnico di maggioranza. E’ importante sottolineare questo passaggio, così come ricordare che il Myanmar è un paese tecnicamente in guerra da circa 70 anni. Sin dalla dichiarazione d’indipendenza, diversi gruppi etnici minoritari, articolatisi poi in vari gruppi armati, hanno dato il via in vaste aree del paese a una serie di conflitti a bassa intensità che ancora oggi non sono completamente risolti. In stati come lo Shan, il Kachin, il Kayin e il Kayah, dove le minoranze etniche sono fortemente rappresentate, vi sono parti significative del territorio interamente controllate dai gruppi armati dove l’esercito regolare birmano non ha accesso. Ad oggi è stato avviato un lento e complicato processo di pace. Il precedente governo aveva raggiunto già nel 2015 un accordo nazionale di cessate il fuoco con alcune sigle, mentre altri gruppi avevano rifiutato di firmare o non erano stati invitati al tavolo dei negoziati. In tal senso, se la crisi dei Rohingya ha sicuramente alcuni elementi fortemente caratterizzanti, principalmente legati al mancato riconoscimento della cittadinanza di un interno gruppo, non si può ignorare che tale crisi vada comunque inserita nella delicatissima dialettica tra centro e periferia, tra gruppo maggioritario bamar e minoranze etniche, che la Birmania si trascina sin dall’indipendenza. Tensioni la cui rappresentazione plastica è data dal cosiddetto pacchetto di leggi a protezione della religione e della razza, varato dal precedente parlamento e che stabilisce tra le altre cose dei severissimi limiti in materia di matrimonio interreligioso e di conversione.
Il ruolo di Aung San Su Kyi e del suo governo rispetto alla crisi dei Rohingya. Salita al governo nell’aprile del 2016 a seguito della roboante vittoria elettorale del novembre 2015, il premio Nobel per la pace e il suo esecutivo hanno raccolto molte critiche da parte della stampa e degli osservatori internazionali per il silenzio sulla crisi dei Rohingya. Prima di entrare nel merito della questione, è necessario chiarire alcuni aspetti circa l’attuale assetto istituzionale e costituzionale del Myanmar. Nonostante il sostanzialmente regolare svolgimento delle elezioni del 2015, per molti versi, il Myanmar rimane ancora lontano dal definirsi una vera e propria democrazia. Secondo la Costituzione del 2008, approvata dall’allora Giunta Militare e ancora vigente, il 25% dei seggi del parlamento non sono elettivi, ma riservati a membri dell’esercito. A questi, inoltre, spettano sempre su base costituzionale, tre Ministeri chiave come Interni, Difesa e Affari di Frontiera. Questi tre dicasteri non rispondono al Governo ma al Comandante in Capo delle Forze Armate, il Generale Min Aung Hlaing. Inoltre, esiste un’ulteriore norma costituzionale che prevede che l’esercito possa dichiarare lo stato di emergenza e di fatto tornare al potere. Una clausola di salvaguardia inserita dall’allora giunta e una spada di Damocle per il governo di Su Kyi. Infine, per apportare qualsiasi modifica costituzionale occorrono almeno i 3/4 delle due Camere del Parlamento, il che rappresenta di fatto un potere di veto da parte dell’esercito, altrimenti conosciuto come Tatmadaw. Questi elementi da un lato servono a spiegare il limitato, se non inesistente, controllo diretto che il Governo della Lady può esercitare sulle operazioni dell’esercito del nord Rakhine, ma dall’altro aiutano in parte a capire il perché del sostanziale silenzio di Aung San Su Kyi sulla questione: avverte sicuramente l’esigenza di mantenere il precario equilibrio con il Tatmadaw, come probabilmente dimostra la forma – da alcuni addetti ai lavori etichettata come autoritaria – con cui sta gestendo la delicatissima partita del processo di pace con i Gruppi Etnici Armati. Ciononostante, per comprendere appieno l’atteggiamento dell’attuale Governo, c’è bisogno di recuperare, e in un certo senso di fare i conti, con il senso profondo della narrazione sedimentatasi in una larga maggioranza dell’opinione pubblica birmana. Per questa i Rohingya di fatto non esistono. Esistono solo immigranti illegali bengalesi, nei quali si infiltra un folto numero di terroristi che mira a sovvertire la sicurezza e la stabilità. E fare i conti con tutto questo vuol dire anche comprendere e accettare che gran parte di quel 77% di elettori, i quali votarono convintamente nel 2015 per la svolta democratica della Lady, condivide intimamente tale narrazione. Non si tratta di mero calcolo elettorale, ma di una costruzione sociale della realtà comune ad un’intera società.
Di un racconto stratificatosi nel corso degli anni e che deriva anche da una rappresentazione dell’identità collettiva birmana, o della cittadinanza se si preferisce, particolarissima. Come in una sorta di principio aristotelico prestato alla politica “è birmano chi lo è e non è birmano chi non lo è” si potrebbe riassumere. Ed i Rohingya non lo sono: non lo sono per la maggioranza buddista arakanese, ma non lo sono soprattutto per l’etnia dominante bamar. E’ curioso vedere come il Tatmadaw, che per anni non è stato altro che il braccio violento della Giunta Militare contro il quale si era battuta Aun Sang Su Kyi, ora venga applaudito nelle strade e dai suoi stessi elettori, come custode della birmanità e protettore della nazione.
Ciononostante, persiste la insopportabile e sistematica violazione dei diritti umani di oltre un milione di bambini, donne e uomini, rimane lo stigma della pulizia etnica. E allora non si può non pensare che ciò che ha pesato sino oggi nella gestione della questione Rakhine da parte del Governo della Lady, oltre e più del silenzio, sia stata l’assenza di un’azione legislativa chiara in grado di rimuovere le barriere all’integrazione e al dialogo intercomunitario. A partire dalla modifica della legge sulla cittadinanza. Nell’idea tribale di cittadinanza, l’elemento etnico è immutabile e incontaminabile, la naturalizzazione non è concepibile perché innaturale rispetto alla propria cosmogonia.
Timidi ma positivi segnali si sono intravisti nel messaggio alla nazione della Lady dello scorso ottobre, in cui mette al centro il ritorno, il reinserimento e la riabilitazione dei rifugiati in Bangladesh nel quadro nello sviluppo sostenibile dell’intero Rakhine.
Il ruolo della Comunità Internazionale. Dall’inizio della crisi del 2012 le condanne aspre provenienti da ambienti delle Nazioni Unite e delle ONG internazionali presenti sul campo si erano mescolate con critiche forse più tiepide degli ambienti diplomatici che mantenevano una posizione più prudente. Da questo punto di vista, non bisogna dimenticare che la transizione non violenta avviata dall’allora governo Thein Sein rappresentava uno dei principali successi della politica estera di Obama e un’enorme opportunità di mercato per gli investitori stranieri. Tale prudenza di una parte della comunità diplomatica si è riproposta anche con il nuovo esecutivo della Su Kyi sul quale, inutile dirlo, vi erano enormi aspettative.
La crisi attuale ha accelerato un mutamento che probabilmente era già avviato dal 2016 sotto i colpi dell’opinione pubblica internazionale e con la dalla famosa lettera aperta all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del dicembre 2016, sottoscritta da Romano Prodi, Emma Bonino e altri 21 tra attivisti e premi Nobel per la Pace.
Oggi, i vertici più alti delle Nazioni Unite pronunciano apertamente e inequivocabilmente le parole “pulizia etnica” che prima venivano sussurrate a mezza voce da qualche funzionario. E’ anzi finita sotto attacco il Coordinatore Residente in Myanmar dell’intero sistema ONU, Renata Lok-Dessalien, con una inchiesta della BBC che l’accusava di aver messo a tacere nel corso degli anni le voci esplicitamente a favore della causa Rohingya. L’inchiesta era così piena di riferimenti circostanziati da far pensare ad un regolamento di conti interno e la Dessalien ha ricevuto una difesa d’ufficio da gran parte della comunità diplomatica occidentale. Ciononostante, la sensazione di uno scarto, di un implicito cambio di rotta è palpabile. Vi è la sensazione che la Comunità Internazionale sia meno disposta a sposare la linea morbida dei primi tempi. Il timore di indebolire il Governo di Aung San Su Kyi, favorendo la destabilizzazione dell’intero paese e un ritorno al potere dei militari, non può esimere la Comunità Internazionale dal formulare critiche anche dure. Non si può abdicare alla propria responsability to protect. Non di fronte a questi numeri. Con la consapevolezza che non vi siano formule miracolose e che il dovere di critica non debba tradursi nell’abbandonare le istituzioni birmane. Ed allora ecco che la Unione Europea annuncia la sospensione di tutte le forme di cooperazione militare con l’esercito birmano, si torna a parlare di sanzioni mirate con analisti che soppesano i pro e i contro. L’Università di Oxford nel frattempo annuncia addirittura la revoca del titolo onorifico conferito ad Aung San Su Kyi.
E’ pur vero che anche per arginare l’onda lunga delle crescenti critiche, sin dal settembre 2016, la Lady aveva richiesto alla Kofi Annan Foundation di istituire una Commissione ad hoc, composta da 6 esperti nazionali, 3 internazionali e presieduta dallo stesso Kofi Annan, sulla crisi del Rakhine. Nelle raccomandazioni finali e seppure in toni molto neutri, e senza pronunciare mai la parola Rohingya, la Commissione auspicava la revisione della Legge sulla Cittadinanza del 1982, la possibilità di prevedere meccanismi di naturalizzazione per i cosiddetti stateless o comunque di garanzie minime in qualità di residenti. La Commissione, infine, aveva posto l’accento sulla necessità di uno sviluppo socio economico integrato della regione e sul ripristino di un dialogo tra le due comunità al fine di una coesistenza pacifica. Poche ore dopo la diffusione di questo documento, da subito criticato dal Comandante in Capo delle Forze Armate birmana, vi è stato l’attacco dei miliziani dell’ARSA e poi il buio.
Ed allora quali sono gli scenari futuri? Forse i profughi faranno lentamente ritorno in Rakhine, come era avvenuto alla fine degli anni 70 e negli anni 90. Ma con che prospettive? Le migliori pratiche internazionali invitano a lavorare su armonia e riconciliazione, con progetti pilota in grado di creare ponti tra le due comunità. La sensazione è, tuttavia, che la ferita che ha lacerato il tessuto di questa parte di mondo non si possa rimarginare così facilmente. Servirà del tempo, forse non basterà una generazione. Ma forse quello che davvero resta della triste vicenda dei Rohingya, accomunati nella miseria con i vicini cittadini Rakhine e da loro divisi da una carta di identità, è una riflessione sul senso della parola cittadinanza. Una riflessione che in Italia, in epoca di dibattito sullo Ius Soli, è quanto mai attuale.