Lo scorso 15 maggio, a Niedernhausen, comune sotto i 15.000 abitanti dell’Assia, è morto Karl Otto Apel; era nato, a Düsseldorf, il 15 marzo 1922; aveva, quindi, 95 anni. Ha insegnato, tra l’altro, all’Università di Francoforte; insieme a Jürgen Habermas, uno degli eredi di quella “scuola”. Ha sostenuto, in particolare, un’idea: quella di una comunicazione illimitata, uno spazio ideale, significativo non solo dal punto di vista linguistico e sociale, ma anche etico e politico. Un interessante connubio tra teoria critica, ermeneutica e semiologia; un tentativo di portare alcune obiezioni di fondo al cuore di quell’insieme di correnti, tra loro diversificate, che si sono raccolte sotto le insegne del “postmoderno”.
Più precisamente, Apel ha sviluppato l’idea di una “teoria dei tipi di razionalità”; partendo dal riconoscimento dell’esistenza di più forme di razionalità tra loro in opposizione e in conflitto. Apel non ha mancato di rivalutare i linguaggi retorico-letterari, allargando così lo scenario dei significati filosofici a forme di pensiero formalizzate in modo non rigidamente logico-concettuale, ma analogico-persuasivo, in relazione ad una razionalità implicita al discorso argomentativo, stabilendo un confine “fra discorso fittizio e discorso pretendente alla verità”. E’ il linguaggio naturale la base della sua filosofia; e, pertanto, non la dimostrazione inconfutabile, ma il convincimento; non l’imposizione dogmatica e astratta, ma la persuasione basata sullo scambio reciproco tra gli interlocutori. Non il soliloquio (l’io penso); ma il confronto e l’interazione possono essere alla base del piano che consenta la comprensione nella comunità. Ecco: la comunità della comunicazione ha costituito, per Apel, l’ambito all’interno del quale la società può darsi come luogo etico: ambito della “formazione non violenta del consenso tra aventi gli stessi diritti”.
Di qui la ripresa della filosofia kantiana, al fine di garantire “quelle pretese di validità universali dell’argomentare che vanno soddisfatte solo in modo non violento”. Apel recupera il progetto di una fondazione non impositiva, non “determinante”, della filosofia; una fondazione, piuttosto, riflessiva, tale cioè da porsi come semplice strumento di collegamento, duttile e ragionevole, tra i diversi ambiti dell’esperienza. Apel postula un principio “regolativo”, un elemento connettivo implicito a tutta la dimensione della comunicazione intersoggettiva, in grado di abbracciare l’umanità nello spazio della co-appartenenza, della socievolezza, del consenso, in un “gioco” che è linguistico ed etico insieme; si tratta di quel principio che regge le relazioni che si svolgono nel campo di ciò che egli chiama l’“illimitata comunità della comunicazione”.
Ciò che viene prima – l’a priori – è sempre il rapporto interattivo con l’altro; ciò che costituisce la comunicazione è un legame profondamente intriso di dialogicità. Ma l’ermeneutica del dialogo si sposa in Apel anche alla critica dell’ideologia (quella che attinge al migliore ceppo della tradizione marxiana) e ciò lo rende solidale con la prospettiva della scuola francofortese. In Apel abbiamo l’idea di un’ermeneutica non avulsa, come a tratti sembra apparire quella di stampo gadameriano, dai contesti storici e sociali determinati.
Ma Apel presenta altri motivi di interesse. Uno dei suoi testi più rilevanti, L’idea della lingua nella tradizione dell’umanesimo da Dante a Vico, che è del 1963, appare in traduzione, per i tipi del Mulino, già nel 1975. La sua ricezione nel nostro Paese porta un segno particolare: quello di un’attenzione agli studi sull’Umanesimo, sulla retorica e sulle poetiche. Guarda caso, intorno a questi stessi problemi si sono formati ed hanno insistito alcuni tra i maggiori studiosi tedeschi contemporanei (l’altra faccia della Luna, potremmo dire, rispetto alla prevalente linea heideggeriana-gadameriana), da Hans Blumenberg a Ernst Robert Jauss. Si tratta di figure che rappresentano una via attraverso la quale è passata la ricezione di un bel tratto della cultura, filosofica e letteraria, di lingua tedesca. E in effetti, specialmente i primi studi apeliani si caratterizzano per il forte accento posto sulle tematiche relative all’argomentazione: è il caso di ricordare, questo proposito, Il linguaggio in Nicola Cusano (1955). Apel si è sempre più orientato verso i problemi della comunicazione come in Trasformazione della filosofia (del 1973) e nella Controversia su spiegazione e comprensione (del 1979). Testi, questi ultimi, incentrati intorno alla proposta di una “trasformazione semiotica del kantismo”.
Ma qui si apre un altro capitolo nella storia della ricezione di Apel: ed è quello relativo alla serie dei saggi ordinati sotto il titolo di Comunità e comunicazione tradotti da Gianni Carchia e introdotti da Gianni Vattimo. In tale occasione la complessità della ricerca avviata da Apel ha potuto ricevere quella considerazione filosofica che il suo senso generale, sin dagli esordi, suggeriva. Teorico del linguaggio, nel suo versante più pragmatico e discorsivo, studioso della semiotica aperta e illimitata di Peirce, prosecutore del criticismo kantiano, Apel, anche per i suoi studi su Weber e Wittgenstein, si presenta come quel pensatore che ha saputo tematizzare l’articolazione dei rapporti nella società tardo-moderna in un’etica del comportamento collettivo, in una rinnovata proposta – socraticamente – del dialogo. Di fronte alle difficoltà che la riflessione, anche e soprattutto nella dimensione politica e civile, attraversa, la sua può costituire un’utile indicazione verso una prospettiva diversa, lontana da ogni acritica apologia dell’esistente.