La vicenda dello ius soli o ius culturae sta diventando oggettivamente penosa. Finita in un intrigo di tatticismi e politicismi. La decisione impostata non già secondo la logica del fai la cosa giusta, posto che tu ci creda; ma trasformata, in modo analogo al testamento biologico, da valore in merce di scambio, in finale di legislatura, per valutare se, ed eventualmente quando, trarne un beneficio politico-elettorale, nel suk dei passi perduti. Se ciò comporti la perdita di uno zerovirgola, ovvero se consenta, e in che termini, e in che misura, d’inventare, fuori tempo massimo, un simulacro di coalizione, per la quale, sino all’altro giorno, nessuno ha lavorato, preferendo assecondare la vocazione maggioritaria in versione autosufficienza.
C’è poi chi continua a promettere che si farà. Chi ha digiunato, pur esercitando funzioni formali nel governo, perché si faccia. E infine chi non manca di dare evidenti messaggi di disimpegno. A ciò si aggiunge la commistione con un’altra questione, separata e distinta, relativa al fenomeno immigratorio, sul quale, ai sensi della Costituzione, ha potestà esclusiva lo Stato, quindi il Governo, con i risultati a tutti noti, dalla fase in cui si è fatto finta di non vedere il problema libico, al modo come è stato, tardivamente e sbrigativamente, impostato.
Ricordo che, in occasione del 2 giugno 2013, festa della Repubblica italiana, vi fu una mobilitazione che coinvolse i Comuni per sollecitare il Parlamento a far proprie le ragioni dell’approvazione della nuova norma (inserita, nel programma di Italia Bene Comune, al punto 9). Ragionevolmente, avrebbe dovuto essere tra i primi atti del governo. Pierluigi Bersani ha spiegato che sarebbe stato il primo atto del suo governo. Ora, in finale di partita, il punto non è se vi sia o non vi sia il tempo per inserire l’oggetto nel calendario dei lavori parlamentari. Non si può affrontare, in modo residuale, una questione di questo rilievo, etico e civile. Si è giunti sin qui perché sono stati male utilizzati i cinque anni della legislatura. Il nodo, politico, è questo.
C’è un passo, che vorrei riprendere, di un filosofo comprensibilmente non familiare a tutti, ma al quale tutti dobbiamo qualcosa. Si chiama Immanuel Kant, ha vissuto in un lembo della Germania, Königsberg, tra il 22 aprile 1724 e il 12 febbraio 1804, oggi enclave russa, tra la Polonia, la Lituania e il mar Baltico, con il nome di Kaliningrad. In un suo testo dal titolo Per la pace perpetua, solo apparentemente minore, nel 1795, proponendosi di dare concretezza a un tema come quello della pace, considerato, per lo più, in termini retorici o predicatori, affronta il diritto dello straniero, oggi potremmo dire il diritto di asilo, e a un certo punto scrive:
“(…) non si tratta di filantropia ma di diritto, e ospitalità significa quindi il diritto di uno straniero, che arriva in territorio altrui, di non essere trattato ostilmente (…) quello cioè di offrirsi socievolezza in virtù del diritto al possesso comune della superficie della terra, sulla quale, essendo sferica, gli uomini non possono disperdersi all’infinito, ma devono da ultimo tollerarsi nel vicinato, nessuno avendo in origine maggior diritto di un altro a una porzione determinata della terra…” (cfr. Immanuel Kant, Per la pace perpetua (1795), a cura di Nicolao Merker, prefazione di Norberto Bobbio, Roma, Editori Riuniti, 2005, pp. 52-3).
Un punto di vista piuttosto radicale, quello della socievolezza per tollerarsi nel vicinato; laicamente posto, ma non dissimile a quello di ispirazione cristiana; soprattutto se si pensa che il tempo successivo, tra Otto e Novecento, sarebbe stato segnato dalle chiusure nazionalistiche, e il nostro, che dovrebbe essersene congedato, da quelle sovranistiche. Parole, tuttavia, quelle kantiane, che hanno ispirato un impianto valoriale, che ha caratterizzato la civiltà europea in direzione dell’apertura, per una convivenza inclusiva, fondata sul pluralismo delle culture. Siamo eredi di questo. Il futuro non è solo davanti, anche alle nostre spalle. Un’eredità di cui non può non farsi interprete l’azione di uno Stato democratico.
Ora, il presidente Pietro Grasso, nel suo discorso a conclusione dell’assemblea del 3 dicembre, alla presenza di tante persone accorse in modo spontaneo, andando ben al di là del perimetro delle forze promotrici e facendo saltare qualche schema, ha voluto ricordare l’articolo 3 della Costituzione.
Eccolo, integralmente, commi 1 e 2:
“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Il primo sulla dignità sociale e sull’assenza di distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. Il secondo sull’esigenza di rimuovere gli ostacoli, con quel cenno alla libertà e all’uguglianza dei cittadini. Ecco: liberi e uguali non è una espressione come le altre. E’ posta nel cuore di questo articolo della Costituzione, quello di non discriminazione, in un nesso, indissolubile, tra cittadinanza, sviluppo della persona, effettiva partecipazione di tutti i lavoratori alla vita del Paese (in modo da allargare ulteriormente il significato attribuito, nell’articolo 1, al lavoro). Parole che risalgono al 1° gennaio del 1948; e che ora diventano motore per una lista unitaria della sinistra. Qualcuno ha detto che inizio e fine si corrispondono. Nella legislatura che sta per chiudersi, la fine rimanda all’inizio, o meglio ancora, a un nuovo inizio.