I detrattori dell’intervista concessa da Roberto Speranza a ‘Repubblica’ hanno spesso lanciato, nei loro commenti, accuse di ‘tatticismo’ e ‘politicismo’. Ritenendo che il coordinatore di Articolo 1 avesse prodotto una pura mossa tattica, di cortissimo respiro e senza alcuna prospettiva politica. Talmente ‘tattica’ da essere dannosa. È sempre un po’ deprimente vedere compagni ed esponenti della sinistra utilizzare con leggerezza quei due termini, ‘tatticismo’ e ‘politicismo’. Dietro ogni ‘-ismo’ c’è sempre una valutazione negativa. Pensate a ‘ideologismo’, a ‘parlamentarismo’. Vi risiede un giudizio che ripiega e si legittima all’indietro, verso il nucleo semantico originario. Nella fattispecie costituito, appunto, dalle parole ‘tattica’ e ‘politica’. Ma da quando la sinistra guarda con diffidenza a esse? Da quando la ‘tattica’ è un disvalore, e la ‘forma’ politica un difetto? Da quando la politica si fa soltanto scrivendo un programma rigidamente alternativo, organizzando un partito e ragionando sui soli tempi lunghi, con lo sguardo solo rivolto in basso? Tutto giusto per carità e perseguibile. Tant’è vero che la fase costituente è in gestazione, avrà presto un momento pubblico, e si metteranno a punto lista unitaria e programmi a forte tasso di discontinuità politica. Ma porre così il problema è riduttivo e lascia immaginare una visione della politica ridotta ai minimi termini, ossia al confronto col sociale, alla ricerca di una connessione con un ‘popolo’, alla definizione di un quadro di prospettiva che quasi fa a pugni con le contingenze e le quotidianità, anzi in tragica e insanabile rottura con esse.
Ma davvero è possibile ignorare quella che chiamiamo anche ‘manovra politica’? Davvero è possibile pensare la politica come ‘politicismo’ e la tattica come insulsa zavorra? E allora che cosa vuol dire ‘fare politica’? A cosa si riduce? I corni del dilemma, come al solito, sono due. Da una parte, c’è la visione di prospettiva, lo sguardo lungo, la progettualità, lo snocciolamento dei contenuti, i programmi. Ma dall’altra, ci sono le mosse e contromosse quotidiane, la presenza in scena e sui media, il protagonismo ai vertici istituzionali, la battaglia parlamentare, il sistema e i sottosistemi politici, la dialettica tra le classi dirigenti, le sfide delle leadership, la manovra politica, il rapporto con un’opinione pubblica che non è la stessa cosa dell’organismo sociale, il corpo a corpo istituzionale, lo scontro con la destra, la ‘caccia’ all’elettorato, i conflitti interni ed esterni ai partiti e ai movimenti, l’iniziativa nelle casematte culturali, le strategie di comunicazione, la tenuta dei fronti a destra e sinistra, e così via. Una massa enorme di azioni, attività, iniziative che mostrano per intero la complessità e tutta l’articolazione del ‘fare’ politica. Se tagliamo tutto questo, se lo riduciamo a insulsa perdita di tempo, a ‘manovra’ nel senso peggiore del termine, ecco che l’intero costrutto si ribalta. E alla fine conta soltanto il rapporto col sociale e l’azione programmatica e di contenuto in house.
Come se, peraltro, il sociale attendesse bonariamente di essere ascoltato docilmente e plasmato e ‘linearmente’ da noi. Dalla sinistra, diciamo. In realtà, non c’è nulla di più refrattario del sociale. Ci sono più ‘singolarità’ e buchi neri lì che all’interno del fronte politico. Ridurre la manovra politica e tutto il resto a ‘forma’ (anzi a ‘formalismo’), a roba spiccia, a cucina quotidiana, a supposto ‘politicismo’, e impegnare tutte le risorse soltanto sui ‘contenuti’, su programmi il più possibile identitari e coerenti, e sull’ascolto delle figure sociali, appare quindi riduttivo, persino insufficiente alla bisogna. La politica non è dentro di noi, non è mera soggettività, non è solo una via organizzativa al ‘popolo’. E nemmeno una cosa che si critica e si dilapida nell’ascolto sociale. Ma è anche una lotta continua (!), un corpo a corpo quotidiano con l’avversario. A cui non si può sfuggire. Anche se si trattasse solo di ‘tatticismo’. Perché l’avversario ti provoca, vorrebbe buttarti in un angolo, dice falsità nei tuoi confronti, ti rappresenta malissimo verso l’opinione pubblica. Va comunque e teatralmente in ‘scena’, anche se tu non ci sei. Da questa morsa non scampi solo stilando programmi e accordandoti con i tuoi. In una sorta di buon ritiro. E magari pure alzando steccati verso gli elettorati di confine. Questa sarebbe davvero una brutta illusione.
In fondo si tratta di contemperare la verticalità del rapporto con la società e le figure sociali, con la orizzontalità del ‘fare’ politica. In una reciproca e relativa autonomia. Due assi che si intersecano nel punto più adeguato alla fase. Una necessità legata anche al contesto, alla logica e alle regole della democrazia rappresentativa, alle dinamiche del sistema dei partiti, all’articolazione istituzionale, al panorama offerto dall’opinione pubblica, alla ‘scena’ quotidiana (quella in cui la teatralità politica si rappresenta nella sua massima visibilità), al complesso dei media, alla prassi contingente e quotidiana degli ‘attori’ politici. La necessità è quella di sapersi muovere su entrambi gli assi, pena la inefficacia e la invisibilità. La sfida di Speranza a Renzi, in fondo, si richiama a questo background, non lo elude. Corrisponde alla necessità di fare politica, di agire sugli equilibri, di fare leva sulle contraddizioni, e di non ritenere che il vuoto pneumatico della propria elaborazione sia un ring sufficiente allo scontro in atto. C’è nell’atteggiamento che critica presunti formalismi, politicismi e tatticismi anche un difetto, una patologia dei tempi, per la quale la politica è ormai carica di valenze negative, le istituzioni di un senso di sfascio, le aule di grigiore e la classe politica di incapacità. Un’increspatura per certi aspetti antipolitica, nel senso ora detto, che da una parte dà impulso al populismo, come cortocircuito tra Capo e Popolo a spregio della mediazione politica e istituzionale, ma dall’altra depaupera l’azione politica sino a renderla una corsa a sé, coltivata in vitro all’interno di una bolla sociale, verso un traguardo finale sempre più complicato.