In una manciata di giorni sono racchiusi il centenario per la nascita di Andrea Zanzotto, il 12 ottobre 1921, e il decimo anniversario della sua scomparsa, il 18 ottobre 2011, nella sua Pieve di Soligo. Conviene partire da qui, da questo paese della pedemontana trevigiana, oggi immerso nella roboante “prosecco valley”, un tempo borgo della campagna veneta ai piedi dei colli, perché Pieve fu in effetti il guscio di noce al cui interno Zanzotto visse la quasi totalità della sua vita, e che nel tempo ha segnato quella trasformazione del Veneto e, in misura più ampia, di tanta parte del nostro paese.
Un guscio di noce che non impedì a Zanzotto di intessere legami e rapporti con i maggiori intellettuali italiani ed europei del novecento, di essere a tutti gli effetti uno dei punti di riferimento della cultura italiana, tanto che – secondo Gianfranco Contini – egli fu, dopo Montale, il più grande poeta italiano del XX secolo.
L’esperienza poetica di Zanzotto è però cosa sola e unica con la sua capacità di intuire, narrare, trasfigurare in versi le grandi mutazioni sociali ed antropologiche che nel secolo breve hanno attraversato la provincia e la regione in cui era nato, di profetare, con sguardo preveggente, quale sarebbero stati gli esiti di un processo che ha portato, nel torno di pochi decenni, una delle terre più misere del paese ad essere uno dei campioni economici globali.
Zanzotto compie questa operazione non tanto secondo i canoni tradizionali dell’engagement dell’uomo di lettere, bensì facendo aderire la sua poesia al tentativo disperato e disperante, una volta che l’accelerazione del progresso economico diventa tale da fagocitare sé stessa, di salvare almeno un lacerto della preesistente armonia.
Ciò che la scienza economica definisce “esternalità negative” per Zanzotto ha un’incarnazione piena e totale nel paesaggio (oggi diremmo: nell’ambiente), che paga il prezzo più alto di uno sviluppo sregolato e disordinato, che slabbra i confini dei centri urbani ed erode di continuo le aree poderali, fa sì che intere colline vengano dissezionate per riorientarne i campi a favore di sole, crea un unico spazio senza tratti distintivi che non è né città, né campagna, ma l’unica grande “megalopoli padana”.
Prosegue Zanzotto indagando fino alle sue estreme conseguenze questo mutamento, che alla fine si fa mutamento antropologico, perché, avverte il poeta, chi cresce lontano dalla bellezza inevitabilmente ne porterà le conseguenze nella sua vita, in termini di abbrutimento personale, di esposizione alle diverse forme di dipendenza.
Nel bellissimo testo del 2009 con Marzio Breda, “In questo progresso scorsoio”, Zanzotto individua esattamente la traiettoria lungo la quale il Veneto e il nord-est sono evoluti (meglio sarebbe, involuti), con un’analisi sociale ed economica davvero puntuale e precisa: la fine del “cattolicesimo applicato”, il Veneto della “subcultura bianca” con il suo tessuto informale di relazioni, unitamente alla trasformazione della mezzadria in piccola e piccolissima imprenditoria decisa a riscattare un passato di miserie (il bisnent che diviene artigiano ovvero subfornitore dei grandi gruppi produttivi e manifatturieri) determina quella slogatura intellettuale che segna le comunità. Con la conseguenza che, se cessa la povertà economica, nondimeno ne permane una culturale e sociale.
Quella che Zanzotto ha compiuto, attraverso i suoi versi, è davvero un’indagine precisa e disarmante sulla globalizzazione economica, e su come essa si sia incarnata nei territori, se è vero che le indagini odierne ci dicono che i distretti economici del nord est – già assunti a modello della cosiddetta “terza Italia” – oggi sono l’ultimo anello delle catene mondiali del valore, dipendendo in maniera quasi totale dall’estero, in particolare dalla Germania.
E la realtà veneta è per il poeta di Pieve di Soligo non un’eccezione ovvero un accidente delle possibili traiettorie della storia, ma attraverso essa viene trasfigurata l’intera contemporaneità dell’occidente, se è vero che nel testo del 2009, descrivendo il nostro paese come stretto tra un’Europa declinante demograficamente e le pressioni delle popolazioni vicine, affermava che “siamo sospesi tra un mare di catarro e un mare di sperma, mentre intorno a noi enormi mutamenti sono in corso e scienza e tecnica e trascinano il gioco, a loro volta giocate da tortuosi e occulti poteri economici”.
Il nodo su cui Zanzotto si attesta, dalle origini della produzione poetica fino al termine – da dietro al paesaggio a conglomerati attraverso il galateo in bosco, Filò – anche nella mutevolezza delle inflessioni stilistiche, è quello originario del rapporto tra uomo e natura, esemplificata quest’ultima dal paesaggio. Un rapporto complesso, che da relazione di complicità evolve progressivamente in relazione di dominio.
Proprio per queste ragioni in Zanzotto emerge chiara la consapevolezza che ogni atto teso a riparare e curare la natura equivale a salvare l’uomo, a ristabilire nelle giuste proporzioni quel legame originario. Uno dei luoghi non a caso privilegiati di tale intenzione è il linguaggio, che Zanzotto utilizza in tutte le sue articolazioni, dallo sperimentalismo ermetico alle forme classiche del sonetto. Fino ad arrivare a quell’originale ritorno alla lingua primigenia, quel pétel infantile che costituisce una sorta di “in-principio” linguistico in grado, forse, di recuperare la frattura che l’uomo ha introdotto tra sé e la natura.
Se è vero che lo sguardo di Zanzotto è disincantato, non indulgente a ottimistiche previsioni sul futuro, non credo che prevalga in lui l’abbandono dell’ultimo Heidegger (autore con cui Zanzotto condivide l’amore per il romantico Hölderlin, di cui curò un’edizione delle liriche) secondo cui “ormai solo un dio ci può salvare”. Piuttosto, l’ostinazione con la quale negli ultimi anni prestava sé stesso, la sua persona e la sua opera a diverse e molteplici azioni di denuncia dello scempio ambientale, a partire dalla cementificazione selvaggia delle “sue” terre, confermano la sua volontà di non rimanere passivi e inermi.
Molte volte si trattava di denunce molto puntuali, che riguardavano il pericolo della scomparsa di un piccolo brolo piuttosto che l’inurbazione delle golene nel quartiere del Piave, e voglio credere che agisse in lui la convinzione che proprio a partire dalla difesa e cura di quei lacerti del territorio potesse originare una diversa consapevolezza da parte dell’uomo.
Per queste motivazioni l’opera di Zanzotto è un’opera profondamente civile ed etica, che sfolgora per la sua completa attualità (anche se questa definizione probabilmente non gli sarebbe piaciuta granché). Riandare a Zanzotto in prossimità dei suoi anniversari può significare recuperare un’utile guida per la costruzione di un pensiero che prova ad agire sulla conversione ecologica, su un diverso equilibrio sociale e antropologico. Tensioni che dovrebbero animare ogni prospettiva di cambiamento politico delle cose.
Perché se è vero che in quel progresso scorsoio ci siamo tutti noi, è anche vero che la voce dei poeti può aiutarci a non smarrire la strada.