Io non ricordo quasi nulla del terremoto del 1980. Avevo poco più di due anni e ho potuto soltanto ascoltare i racconti, leggere qualche articolo commemorativo, partecipare a qualche cerimonia in onore delle vittime. Persino le nottate in auto a Torre del Greco, che si annidano in qualche angolo remoto della mia memoria, credo appartengano esclusivamente al ventaglio dei ricordi indotti. Come le favole raccontate ai bambini prima di andare a dormire.
So solo che quel terremoto che colpì la Campania e la Basilicata fu uno spartiacque. Il paese non fu più lo stesso. I ritardi nei soccorsi furono il manifesto di uno Stato che non funzionava a dovere. La ricostruzione finì per essere in buona parte un grande affare per alcuni pezzi della politica e per tanta parte della criminalità organizzata. Un’occasione per regolare la mappa di nuovi rapporti di forza tra potere e società.
Alcuni considerarono quell’evento tragico alla stregua di una tavola imbandita finalizzata a compiere il salto di qualità: gli anni 80 a Napoli divennero il teatro di una mattanza senza precedenti tra le fazioni della camorra che si contrastarono senza esclusione di colpi. Essa divenne imprenditrice, un’articolazione della classe dirigente del paese, lo snodo per la stabilizzazione regressiva di un quadro politico già abbondantemente fallito.
In pochi reagirono, in tanti subirono anni di malfunzionamento delle istituzioni, di ritardi nell’assegnazione delle case, di lavori pubblici pensati male e finiti peggio. Intere città crebbero a dismisura, vecchi quartieri cambiarono pelle, una nuova borghesia palazzinara e rampante si saldò con i signori del riciclaggio, dell’usura, del racket, della droga. Ci fu addirittura chi coltivò l’utopia sanguinaria di una camorra organizzata come un partito leninista, radicato nel territorio e con un esercito gerarchizzato di professionisti del crimine.
Ci furono anticorpi positivi che tuttavia si sprigionarono immediatamente: nell’emergenza emerse una spinta solidaristica tra nord e sud mai vista prima, prima che calasse sul paese la scure dell’egoismo leghista. Furono migliaia i volontari che partirono da ogni parte della penisola per offrire ristoro ai terremotati, organizzati dai partiti, dai sindacati, dalle associazioni, dalla Chiesa. Quel capitale sociale fu capace talvolta di sostituire l’autorevolezza di una burocrazia farraginosa e irresponsabile.
Non dimenticherò mai che fino a pochi anni fa intere città della mia regione avevano ancora cittadini che vivevano nei container, in attesa di ricevere le case che gli spettavano di diritto. Oggi celebriamo i quarant’anni da quel terribile evento. Bisognava fare presto a salvare quelle vite. Ma bisognava fare meglio per ricostruire. E invece il terremoto passò sulle nostre vite e cambiò definitivamente il segno del nostro paesaggio, la cifra delle nostre società, il tratto delle nostre economie, il futuro di intere generazioni.
Ci siamo resi conto solo nel corso degli anni di quanto il nostro territorio fosse fragile: L’Aquila come Amatrice, le Marche come l’Emilia Romagna, passando per l’Umbria. Abbiamo migliorato le nostre capacità di intervento nei soccorsi, abbiamo imparato a costruire edifici antisismici, abbiamo iniziato a delineare piani di messa in sicurezza del suolo. Ma il terremoto, una volta passato, non ripristina mai lo status quo ante. Spezza trame di comunità, distrugge attività produttive e commerciali, ridimensiona la memoria collettiva, appanna le tradizioni, sfigura l’ordine delle cose naturali.
Può anche spingere a migliorare, a capire che gli esseri umani non possono e non devono padroneggiare tutto. Come ci racconta esattamente la pandemia con cui siamo costretti a convivere da quasi un anno, quel maledetto 23 novembre del 1980 ci spinge a osare di più e tirare fuori dai cassetti qualche buona intuizione e qualche pratica nuova. La strada della prevenzione civile come risposta alle minacce dei prossimi anni e come chiave di convivenza tra il destino dell’uomo e la forza della natura.