Un documento approvato il 23 maggio scorso dalla Direzione nazionale di Articolo Uno contiene alcune importanti affermazioni, che possono finalmente riaprire una discussione sul futuro della sinistra in Italia e, soprattutto, spingere a riflettere sul che fare, per consentire di uscire da una sterilità oramai sconfortante.
Cosa dice questo documento? Il passaggio-chiave è quello conclusivo: “È il momento di dare il via a un percorso democratico, ampio e partecipato di riunificazione plurale di questa ricca ed eterogenea area politica e culturale. Il tempo di un fatto nuovo è ora”. L’area politica e culturale cui ci si rivolge è quella composta dal “Partito democratico”, e da “tutte le forze che a sinistra e nell’ambientalismo condividono l’ambizione di governare questa straordinaria fase di cambiamento”, e da “larghi strati dell’associazionismo laico e cattolico, del civismo e della cultura che si sono mobilitati in questi anni per la giustizia e per i diritti”.
È giusto, il momento è questo; ma ci sono ancora molte cose da chiarire: la prima è relativa al ruolo del Partito democratico. Rivolgersi anche al Pd, in questo contesto, conferisce al documento un alone di ambiguità che occorre dissolvere; la seconda, riguarda le modalità di questo “percorso democratico” di “riunificazione plurale”.
Non occorre spendere molte parole per descrivere lo stato disastroso in cui si trova la sinistra nel nostro paese: non c’è un partito che possa essere considerato lo spazio di riferimento unificante per tutte quelle forze che vogliono caratterizzarsi per le proprie radici nella storia della sinistra italiana, per l’aspirazione a rinnovare questa identità con un proprio autonomo profilo politico-culturale, con un richiamo alle idealità del socialismo e ad una nuova coscienza ecologista.
Sarebbe ingeneroso negare che Articolo Uno, in tale costellazione, è la forza che più sta provando a darsi il profilo e la struttura di un partito, ed è innegabile l’impegno di tanti compagni in questo senso. E certamente, pesa anche il prestigio e l’autorevolezza di Roberto Speranza. Ma credo che nessuno, tra gli stessi aderenti ad Articolo Uno, si illuda che questo impegno possa bastare.
Non abbiamo dati sulle iscrizioni, sia ad Articolo Uno che alle varie altre associazioni o gruppi che si muovono in quell’area politica che, grosso modo, si era riconosciuta nella lista di LeU: ma, nelle (non molte) realtà in cui c’è una qualche presenza (io conosco la realtà della Toscana), nei migliori dei casi siamo nell’ordine delle poche decine di iscritti; mentre sono certamente migliaia le persone di sinistra che vagano senza nome e senza patria. Quel milione di voti raccolti da LeU nel 2018 erano voti in gran parte di elettori potenzialmente militanti: interrogati dai sondaggisti, continuano ammirevolmente a confermare la loro intenzione di voto, sebbene gli stessi sondaggisti non sappiano più bene che pesci pigliare (avrete fatto caso che i vari istituti adottano le più svariate etichette). Ed è già di per sé un fatto straordinario che quelle intenzioni di voto continuino a manifestarsi, pur in assenza di un basilare elemento di identificazione: anche semplicemente un nome comune…
Si dirà: “a sinistra” c’è anche il Pd, ma il Partito democratico è altro. Non serve qui riproporre un’analisi svolta in passato e in altre sedi. Il Pd è una forza vagamente di centrosinistra, che progressivamente ha smarrito il profilo che originariamente ne aveva ispirato la nascita, ossia uno spazio unitario in cui potessero fecondamente incrociarsi la cultura politica della sinistra italiana e quella dei cattolici democratici. Sempre più il Pd è divenuto altro: si sbaglierebbe persino a definirlo, tout court, una forza liberal-democratica. È uno spazio vuoto, privo di una propria autonoma cultura politica, al cui interno convivono in modo contraddittorio ispirazioni diverse: certo vi sono forze, uomini e donne, dirigenti e militanti di base che vengono da una genuina tradizione di sinistra; ma c’è anche molto altro, di tutto e di più. E soprattutto, per le vicende che hanno caratterizzato la sua storia dalla fondazione ad oggi, e specie gli ultimi anni, è un partito che rischia di essere strutturalmente ingovernabile e irriformabile. La sua “costituzione materiale” conferma sempre più la diagnosi che, in sede politologica, ne è stata data: un partito-coalizione instabile, fatto di filiere e di correnti, di notabilati locali e regionali, sempre più esclusivamente proiettato in una dimensione istituzionale.
Cascano le braccia a leggere una recente intervista di Bonaccini, in cui si invoca un “partito più robusto”, per poi ritornare alla sempiterna evocazione di un “partito aperto”: un partito la cui identità si “costruisce entrandoci davvero nei bar, per ascoltare e provare a dare risposte. E poi entrando anche nelle fabbriche, nei centri di ricerca, nelle imprese agricole, nelle università e nelle scuole, nei presidi dei lavoratori in lotta fuori dalla propria azienda”. Ottimo, ma verrebbe da chiedere a Bonaccini due cose: ci sono ancora militanti e iscritti in grado di fare questo lavoro? Ma soprattutto, per entrare in un bar, e attaccare a parlare di politica, occorre che il militante (come accadeva un tempo) sappia cosa dire e abbia avuto dei momenti di vita interna al partito in cui le cose da dire si acquisiscono, si discutono, si approfondiscono. Certo, anche Bonaccini precisa che un partito “più robusto” significa un partito “con un’identità più forte e marcata”. Già, ma quale identità? E, soprattutto, il Pd, così com’è strutturato, è in grado di darsela, questa identità?
Questo il nodo, che non riguarda solo il Pd, ma anche la prospettiva che ha indicato Articolo Uno nel suo ultimo documento.
Il progetto di dar vita a un partito sulla base dell’esperienza di LeU è fallito per varie ragioni e varie responsabilità: se ne può discutere, ma a questo punto serve a poco. Ma non c’è dubbio che una ragione di fondo sia stata la diversità del giudizio politico da dare sul Pd e sulla conseguente possibilità di dare vita a uno schieramento unitario tra la sinistra e il centrosinistra. In alcune forze è prevalso, e continua a prevalere, quello che potremmo definire un giudizio metafisico sulla “natura” del Pd (accade quando, ad esempio, si adotta la teoria delle “due destre”, e se ne conclude che “questa o quella per me pari sono”: una “teoria” che potrebbe fare molti danni alle prossime elezioni regionali). Ma tali giudizi ignorano proprio la crescente “liquidità” del Pd, il suo essere uno spazio vuoto e privo di identità che, proprio per questo, può anche trovarsi a svolgere un ruolo positivo e diverso, o essere sospinto a svolgerlo.
Tuttavia, è innegabile che a paralizzare in questi ultimi due anni l’azione politica di gran parte della “sinistra fuori dal Pd” sia stata anche una peculiare sindrome, che potremmo definire come “la lunga attesa”: l’attesa, dapprima, che Renzi se ne andasse; o che poi Zingaretti imprimesse una più decisa svolta politica e programmatica; l’attesa, anche, che si potessero creare le condizioni per un “rientro” nel Pd, un rientro possibile (credibile e giustificato) solo se il Pd fosse divenuto un partito in cui risultasse praticabile una schietta battaglia politica e culturale, per poter finalmente trovare e inventarsi quella famosa “identità” scomparsa (o mai avuta); l’attesa che il Pd potesse miracolosamente trasformarsi in un partito con una sua “agibilità” politica e democratica.
Attese che, a questo punto, non è più possibile prolungare: quel “qualcosa” non è accaduto e non sembra alle viste qualcosa che permetta di tornare a considerare il Pd come una “casa comune”. Anche in questo caso, si sconta un difetto di analisi sulla effettiva “costituzione materiale” del Pd, sui “lacci e lacciuoli” che ne impediscono l’auto-riforma, sul perdurante equivoco di un partito in cui convivono culture politiche lontanissime, e che – proprio per questo – può “tenersi insieme”, faticosamente, solo mettendo a tacere queste differenze, ma a costo di una crescente indeterminatezza di quella ispirazione politica e ideale che dovrebbe ispirare e unificare programmi e proposte di policies. È davvero singolare: molti commentatori invocano la famosa “visione”, e la chiedono (giustamente, ma talvolta con inaccettabile supponenza) a Conte e al governo; ma qual è la “visione” del Pd? Anche in questo caso sarebbe ingeneroso negare lo sforzo che questo o quell’esponente del partito o del governo stanno compiendo; ma la domanda cruciale è un’altra: è in grado il Pd di darsene una, di “visione”?
A dire il vero, questa consapevolezza si era fatta strada nel Pd: nel novembre scorso è stata approvata una modifica dello Statuto che reintroduce la parola “congresso”, un confronto tra gli iscritti sulla base di documenti politici e programmatici. Un’innovazione positiva, che coesiste contraddittoriamente con il meccanismo plebiscitario delle “primarie aperte” per l’elezione del segretario; ma comunque una novità che poteva aprire una fase nuova: e infatti, prima della crisi sanitaria, si pensava di attivare questa procedura “congressuale”, e si poteva sperare che si creassero le condizioni perché forze esterne al Pd potessero partecipare e contare qualcosa. Naturalmente, è stato tutto sospeso; mentre, in compenso, sono ricominciate varie manovre intorno alla leadership del partito, che non meriterebbero soverchia attenzione se non per il fatto che da esse trae conferma una diagnosi sulla estrema difficoltà di introdurre logiche diverse nella vita interna di questo partito. In queste condizioni, qualsiasi “rientro” nel Pd perde ogni significato politico: significherebbe solo “iscriversi” ad una delle tante correnti o sotto-correnti che si agitano in quel partito.
Se questo è il quadro, la domanda – per i compagni di Articolo Uno e per tutta la galassia frammentata che si muove a sinistra del Pd – è molto netta: non è giunto davvero il momento di avviare quel processo di “riunificazione plurale” di cui parla il sopra citato documento? E di farlo con tutte le forze disponibili, a prescindere da quel che accade, o non accade, nel Pd?
Il momento è questo, e per tante ragioni: prima fra tutte, il fatto che le elezioni politiche (si spera) sono ancora lontane, e che quindi è necessario costruire ora un soggetto politico, chiaramente identificabile, che possa poi arrivare preparato a questa scadenza (senza le corse affannose dei cartelli elettorali messi su all’ultimo momento).
Ma su quale base strategica? Questa è la domanda che naturalmente occorre porsi. E qui, una prima discriminante è molto netta: l’obiettivo potrebbe essere quello di costruire una forza politica che sappia unire la radicalità della sua visione ideale, politica e programmatica, e un profilo chiaramente di governo. Certamente, in questa area politica, vi sono idee anche molto diverse (si prenda la questione europea), ma si pensa forse che quel processo di “riunificazione plurale” possa avviarsi solo quando si siano chiarite e condivise tutte le posizioni? Si pensa forse che dalle differenze debba necessariamente derivare una separazione anche organizzativa? Che ciascuno debba quindi rinchiudersi nella cerchia (ristretta) di coloro che la pensano allo stesso modo? Si pensa che le attuali formazioni siano sufficienti a dare respiro, credibilità e prospettiva a un progetto di sinistra del nostro paese? Pensare che un nuovo partito possa nascere solo dopo aver chiarito e sciolto tutti i nodi politici, e che questo chiarimento possa avvenire attraverso un confronto tutto chiuso nella ristrettissima cerchia degli attuali gruppi che rimangono o si sono formati, è del tutto illusorio: è un modo, di fatto, per rinunciare alla costruzione di un nuovo soggetto politico. In realtà, poi, su molte questioni le idee condivise non mancano, le elaborazioni intellettuali (anche di alto livello) ci sarebbero anche: manca il soggetto politico organizzato che le possa far diventare cultura politica diffusa, un luogo in cui discutere e confrontarsi produttivamente, fuori da oramai insostenibili e sterili nicchie.
Vi è tuttavia, un elemento più schiettamente politico che è impossibile sottacere. Per essere chiari: da questo processo di “riunificazione” si auto-escludono tutti coloro che pensano non abbia senso – per questa fase e forse per una lunga fase storica – porsi il problema della creazione di uno schieramento largo di sinistra e centrosinistra in grado di proporsi come forza di governo. Chi ritiene che il Pd non possa essere un interlocutore, sempre e comunque, si muove evidentemente su un altro piano. Il dialogo con il Pd è necessario, ma si pone in questo quadro: ed è legato ai rapporti di forza che si potranno creare, e agli sviluppi interni di quel partito, ma su basi di reciproca autonomia. Autonomia tanto più necessaria, se poi – come è sperabile – si andrà verso un sistema elettorale proporzionale (con una soglia ragionevole, cioè più bassa di quella attualmente prevista): un sistema di voto in cui ciò che conta è la capacità di offrire un profilo originale, di articolare e costruire un’offerta di rappresentanza politica capace di “parlare” a specifici segmenti della società italiana.
Si dovrebbe finalmente provare a discutere concretamente su come uscire dalla condizione di impotenza e di frustrazione che domina oggi nei sentimenti di molta gente di sinistra; ma, per poter smuovere le cose, occorre che questo processo di “riunificazione plurale” sia finalmente incardinato su una base certa: occorrono regole chiare e procedure condivise, sulla base dei quali dare corpo e gambe ad un processo di ricostruzione.
In che modo? Da una parte, occorre individuare regole inclusive, trasparenti, che possano garantire tutti; dall’altra, tutti devono rimettersi in gioco: non ci può essere un “retro-pensiero” secondo il quale il percorso di un “nuovo partito” va bene, ma purché se ne possa, a priori, controllare gli esiti. Liberi tutti, poi, naturalmente, di aderire al partito che si costituirà: ma oggi la priorità politica è quella di provarci seriamente a farlo, questo nuovo partito. Coloro che sono convinti della necessità e possibilità di un nuovo partito, devono assumersi la responsabilità di proporre – in tempi certi – un vero e proprio percorso congressuale, semplice e comprensibile. Non è questa la sede per proporre in dettaglio le regole e le tappe di questo “percorso democratico, ampio e partecipato di riunificazione plurale”, come lo ha definito il documento della Direzione di Articolo Uno. Ma è il momento di tirar fuori idee concrete su come strutturarlo e come avviarlo. E di assumere decisioni conseguenti. “Il tempo di un fatto nuovo è ora”, appunto.