Uno spettro s’aggira per la cronaca politica italiana: lo spettro del riformismo.
Ci si perdoni l’incipit a effetto, ma è sotto gli occhi di tutti che, periodicamente, quest’identità viene rivendicata da esponenti politici che sembrerebbe più logico identificare in altro modo. Spesso, come nel caso dell’ultima feroce polemica, per bastonare chi non è allineato al mainstream.
Di recente si è sentita anche rispolverare la formula del “riunire i riformisti”: uno spettro, appunto, ossia un’area politica che non esiste e, soprattutto, finanche un’identità complessa da definire.
Forse questo è il punto da cui è più opportuno partire, nel ragionare su questa parola d’ordine: che cosa vuol dire riformismo?
Uscendo dal senso comune, che provoca fin troppe distorsioni, è necessario ammettere che questo concetto si riferisce a questioni di metodo, e non di merito; ovvero, da un lato il riformismo non può essere un’identità politica ma soltanto una scelta operativa. Ma, dall’altro, è comunque una scelta operativa connotata all’interno di un preciso campo politico: essere riformisti vuol dire voler trasformare radicalmente la società usando come strumento le riforme; quest’identificazione nasce infatti all’interno del movimento socialista agli inizi del Novecento, tant’è vero che l’ala del PSI riunitasi attorno a Filippo Turati si definiva quella dei socialisti riformisti.
I socialisti riformisti si identificavano in questa maniera perché contrapposti da un lato all’ala maggioritaria dei socialisti massimalisti, che prevedeva la presa del potere tramite la rivoluzione armata e dall’altro, nel più ampio campo del dibattito parlamentare, alle forze conservatrici, che avversavano ogni trasformazione degli assetti preesistenti.
Ci si perdoni l’estrema sintesi, che non rende giustizia alla complessa storia di un movimento articolato e pieno di grandi personalità (come ad esempio Giacomo Matteotti), ma approfondire ulteriormente ci allontanerebbe dall’argomento principale di questa riflessione: ciò che ci interessa sottolineare è che nel corso degli anni, abbiamo assistito all’estendersi dell’uso di questo concetto, usato anche da liberali riformisti e perfino cristiani riformisti; dilatando al massimo il significato, potenzialmente si potrebbe includere nel riformismo tutto l’agone parlamentare, ovvero tutte le soggettività politiche che accettano l’uso del metodo democratico piuttosto che della forza per perseguire i propri programmi.
Ma è abbastanza evidente che proprio questo eccessivo allargamento del campo di significato toglie ogni valore alla definizione in sé; e non è questione linguistica, ma squisitamente politica.
Se dunque l’etichetta di riformista nasce in un contesto inequivocabilmente di sinistra, in cui l’aspra discussione era sì sul metodo da utilizzare, ma non sulla necessità – da tutti condivisa – di mutare radicalmente gli assetti di una società bloccata in termini economici e sociali, il cortocircuito a cui assistiamo oggi è che di questo termine sembrano essersi appropriati gli alfieri della conservazione.
Come indicare altrimenti, infatti, quegli esponenti politici e quell’area che si oppongono strenuamente a ogni tentativo di modificare la disparità sociale? Quale altra definizione sarebbe adatta a individuare chi si schiera costantemente dalla parte della rendita e porta avanti politiche ispirate alla tutela del privilegio, piuttosto che alla lotta per una maggiore uguaglianza?
Già quando in quell’area si facevano chiamare “moderati” era lecito avere qualche perplessità, vista la ferocia di certe loro posizioni ideologiche. Ma non solo: nelle parole di alcuni di questi esponenti, l’etichetta di riformisti sarebbe estendibile perfino a personaggi politici che, a uno sguardo meno legato alla convenienza, non possono apparire altro che reazionari, perché militanti in formazioni politiche che, su numerosi argomenti, dai diritti civili a quelli del lavoro, hanno più volte dimostrato, con la propaganda o con i fatti, di voler riportare all’indietro le lancette della storia. Del resto, siamo all’assurdo per cui ormai perfino l’estrema destra, nell’Europarlamento, si definisce dei “Conservatori e riformisti”, come se una storia come quella di Matteotti potesse coesistere con chi cova una neanche tanto segreta passione per chi l’ha fatto massacrare.
A questo punto è evidente che chi ha seriamente a cuore i principi riformatori della sinistra deve tutelare la propria area non solo da indebite invasioni di campo (che pure in passato sono state frequenti), ma anche dalla progressiva liquefazione delle distinzioni e dei significati. Per quanto, se privato di un sostantivo indicante la collocazione politica, l’aggettivo riformista possa sembrare abbastanza vago, vuol dire invece una cosa ben precisa.
Dobbiamo riprendere a chiamare le cose con il loro nome, e dunque impedire a chi rappresenta la conservazione e il privilegio di appropriarsi delle parole d’ordine del socialismo e del liberalismo democratici, culture politiche nel cui incontro c’è l’unica possibilità di trasformare in meglio questo nostro sventurato Paese.
In sostanza, bisogna ribadire che un riformismo senza connotazione non esiste, un riformismo conservatore è una contraddizione in termini, e quindi la sua invocazione può essere solo un ennesimo gattopardesco, e molto italiano, tentativo di restare a galla di un pezzo di ceto politico che ormai è stato superato dalla Storia.