Nel momento triste della perdita, voglio ricordare Luciano Vandelli in un suo piccolo divertissement di scrittore, augurandomi che ciò possa restituire, a chi frequenta questo blog, un’idea dei suoi interessi e di come sapeva coltivarli. Mi riferisco, in particolare, a un librino, scritto non già per motivi di studio, come professore di diritto amministrativo, o in relazione ad incombenze o urgenze di ordine pratico, di cui pure ha dovuto occuparsi come amministratore comunale, provinciale, regionale. O almeno non solo. Ma per l’autentico interesse che nutriva per la questione amministrativa, vista nella molteplicità dei suoi aspetti, nel corso di tutta la sua parabola umana, professionale e politica.
Un volumetto tanto smilzo quanto concentrato, direi appuntito come il pennino dello scriba, nel tentativo, pienamente riuscito, di descrivere Il pubblico impiegato nella rappresentazione letteraria, a suo tempo dato allo stampe dalla casa editrice bolognese Clueb, collana della Spisa (la Scuola di specializzazione in studi sull’amministrazione pubblica dell’Università di Bologna), frutto di una relazione, poi ampliata, presentata a un convegno imolese.
Una prova di brevitas, il che non guasta: 43 pagine. Un lavoro che si snoda su due registri. Uno è quello degli scrittori-impiegati. L’altro concerne la figura dell’impiegato nella letteratura.
Cominciamo dal primo. Si va da Novalis, giovane e sfortunato protagonista del primo romanticismo tedesco del circolo di Jena, che fu funzionario delle miniere. A Emile Zola, dipendente delle dogane. Da Paul Claudel, diplomatico di carriera. Allo scandaloso quanto barcollante Charles Bukowsky, impiegato delle poste. O, ancora, a uno dei maggiori scrittori del nostro Novecento, Carlo Emilio Gadda, ingegnere del Genio civile. Per non dire del ventiduenne Maupassant, alla ricerca di un impiego al ministero della Marina. O di Gogol, assunto, ventenne, a quello dell’Interno.
Oppure, ecco il caso di Franz Kafka, perfettamente diviso tra la notturna attività dello scrittore e l’antimeridiano lavoro dell’“impiegato modello”. Con due giornate in una, rigorosamente organizzate e separate tra loro, scandite da due sonni, seppur brevi, e due veglie, produttivamente febbrili. Di fatto, due esistenze, scisse e mai ricomposte, che, in qualche modo, sono state alla base di una peculiare duplicità (come documentano, in modo fedele e sorprendente, i diari e le lettere).
Il secondo registro si riferisce, come già accennato, all’universo impiegatizio rappresentato in letteratura. D’altra parte – si chiedeva Luciano Vandelli – che sarebbe stato, senza il pubblico impiego, della Mosca di Cechov o dei personaggi di Bulgakov, col loro “muso statale”? E’ soprattutto tra il XIX e il XX secolo che l’evoluzione delle tecniche di governo e quella della letteratura segnano un’“irresistibile ascesa del fenomeno burocratico”. Qui la rappresentazione del tema si amplia e va da Monsù Travet di Bersezio (1863) sino al “borghese piccolo piccolo” di Vincenzo Cerami, formidabile sceneggiatore di Roberto Benigni; passando attraverso le ossessioni totalitarie di George Orwell o di Aldous Huxley.
Quella dell’impiegato diviene metafora di una condizione più generale. Il modello burocratico “vince”, non sempre nel senso, alto e nobile, immaginato da Max Weber. Ma sbaglieremmo a pensare che si tratti di una condizione che appartiene solo al passato. Il cercare – e il sempre più di rado trovare – da parte di scrittori e letterati, un riparo e una possibile legittima fonte di guadagno in un ufficio continua a essere una necessità, per chi rimane, siccome non pochi, tra i più giovani, come sappiamo, sono costretti a prendere le strade del mondo, abbandonando l’Italia.
Non si vive di sola scrittura, e le generazioni più recenti lo sanno come poche altre. Questi due mondi – dell’impiego pubblico e della letteratura – offrono uno sguardo anche sull’oggi, o meglio su un aspetto di quella che diciamo la questione sociale.
Ma il volumetto rivela, al contempo, un accento, un carattere, uno stile che sono stati stati tipici della persona. Luciano Vandelli sapeva dedicarsi alle cose con sovrana pazienza, con un incedere ponderato verso un dialogo sempre attento con l’interlocutore. Agnostico a ogni culto della semplificazione, era incline, piuttosto, a curare l’intarsio delle connessioni che irradiano un problema in un fitto reticolo di riflessi e sfumature. Lo dimostra molto bene questo testo. Solo apparentemente laterale o in ombra rispetto alla produzione accademica o pubblicistica maggiore. Depositato sulla pagina dal lento scandaglio delle letture fatte nel corso degli anni, anche per puro piacere. Ma in grado di restituire una riflessione attuale.
Il nostro Paese ha bisogno di un’amministrazione al servizio dei cittadini e, come dice la Costituzione (all’art. 97), ispirata al “buon andamento”. Un’espressione di estrema semplicità, formulata in una lingua italiana in grado di essere compresa da chiunque, eppure estremamente pregnante: dà plasticamente l’idea, da un lato, di qualcosa di benevolo; dall’altro, non della staticità, ma del dinamismo. Non il mero adempimento delle procedure, ma il movimento verso i benefici che possono ricadere sulla collettività.
Una certa incultura tende a sottovalutare l’importanza della pubblica amministrazione, derubricandone il valore ad alcuni episodi di malcostume, dimenticando il lavoro, serio e onesto, di chi vi opera, impegno senza il quale non reggerebbe un giorno il progetto di uno Stato che voglia dirsi moderno. Anche a questa cifra della pubblica amministrazione ci ha invitato a credere, nella sua opera politica e di studioso, Luciano Vandelli.