Liberi e Uguali non è un ritorno al Novecento. Esattamente il contrario. E’ un congedo, da una situazione di crisi della politica italiana, che guarda avanti. Con alcune conseguenze. Si pensi alla forma-partito. Siamo in un contesto più prossimo al volontariato politico che al funzionariato di partito. Basta partecipare ad una assemblea di Liberi e Uguali. Persone che si dedicano alla politica, alcune delle quali hanno servito come amministratori le loro comunità o che si occupano del terzo settore o della sussidiarietà sociale, dotate di una propria attività. Un pezzo di società animata da passione per la politica, ma distinta e distante da ogni dilettantismo. Disinteressata, ovvero interessata ad una politica fatta con la testa, non con la pancia. La nota definizione di Max Weber, Politik als Beruf, correttamente intesa come professionalità, in campo politico, non senza una sfumatura che rimanda a una vocazione e a una missione.
Il partito del nuovismo senza radici, nonostante i toni retorici e declamatori, postumo a se stesso. Un movimento, che si dice affetto da nostalgie per la tradizione, sciolto dal vincolo, avviato a inventare le forme nuove della partecipazione democratica. In questo passaggio, pieno di incognite, ricco di possibilità, Liberi e Uguali sarà credibile se riuscirà a suggerire l’idea di qualcosa che sta nascendo; di costituente, non di costituito; di tuttora in fieri, non di definitivo; l’idea di un progetto capace di approdare a un soggetto inedito. Non un episodio, né una sommatoria. Qualcosa di fondato, prima di tutto, sulla responsabilità che intende assumersi verso il Paese e verso la propria gente, che nasce nel voto, ma che non si esaurisce nel voto.
Liberi e Uguali, anche se le sue formazioni plurali vengono da una cultura del radicamento politico, è destinato a confrontarsi anche con un voto di opinione. La rottura che c’è stata, il rimescolamento, la rapidità del processo in atto, il delinearsi di un imprevisto, per quanto motivato, orizzonte di attese, il cammino che abbiamo davanti: tutto questo definisce qualcosa di più impalpabile, ma non meno consistente, in quanto valoriale. Non è un caso che tra i motivi che hanno portato sin qui sia stato l’esito del 4 dicembre 2016, espressione di una democrazia diretta come quella referendaria. Ed è strano come, da parte di non pochi commentatori, non si sia voluto comprendere che il modo per esprimere rispetto verso i cittadini e i loro orientamenti avrebbe dovuto escludere letture politiciste: quel voto è andato così non solo per il ruolo esercitato dalle forze politiche, ma anche per il libero discernimento del popolo italiano. Si chiama sovranità popolare. Quella cosa che, come dice l’articolo uno della Costituzione, appartiene al popolo. A dispetto di ogni sovranismo di partito.
Una lista unitaria della sinistra risponde a due esigenze: prima di tutto configurare una nuova rappresentanza democratica, quindi dar vita a un nuovo soggetto politico della sinistra. Le proposte tutt’altro che secondarie, soprattutto in un momento come questo. Per noi, in relazione al programma sin qui delineato, in particolare, quelle del lavoro, della dignità della persona, della giustizia sociale, del contributo onesto di chi paga le tasse, del perseguimento dell’uguaglianza sostanziale, oltre a quella formale, delle donne e degli uomini, della produzione rispetto alla rendita, di un’etica pubblica fondata sulla trasparenza. Per riconoscersi nella visione dell’interesse generale, nella composizione dei bisogni, nella cultura dei corpi intermedi e nell’intelligenza diffusa della cittadinanza attiva, in una comunità fatta di diritti e di doveri, che ha bisogno di buoni esempi, da parte di chi rappresenta le istituzioni, di buone pratiche, da parte di tutti. Unendo progressività fiscale e universalismo, specie nei servizi fondamentali per la persona, a partire dalla sanità e dall’istruzione, scolastica e universitaria.
Con un segno netto di discontinuità. Il Paese deve sentire che si cambia pagina, che si cambia registro. C’è saturazione verso un fenomeno, quello della personalizzazione, andato ampiamente oltre il segno. E’ giunto il momento di restituire alla politica il compito di affrontare i problemi e, se ne è capace, di trovare le soluzioni, contrastando, in primo luogo, le diseguaglianze. Con alcune avvertenze. Quello che accadrà il 5 marzo dipenderà da come sapremo condurre la campagna elettorale sino al 4 marzo. Anche tra di noi. Quindi, coesione. Convinci se sei convinto. Ci sono tre strutture in campo: quel che resta dell’organizzazione del Pd, le risorse economiche di Berlusconi, il marketing via web del M5s. Noi viaggiamo leggeri; con lo zainetto della nostra identità. A maggior ragione dobbiamo essere interpreti di una domanda sociale autentica. La nostra bussola. Inoltre sarebbe buona cosa evitare la trappola del pallottoliere. Il risultato dipenderà dall’impegno di ciascuno e di tutti. Sarà quello che vorranno le donne e gli uomini che continuano a coltivare la speranza di un’altra Italia. Non sono pochi. Ma i bilanci si fanno alla fine. E’ questo il voto utile, quello che diversamente non avrebbe voce. Sapendo che, come diceva il buon Albert Einstein, “non tutto quel che conta può essere contato”.