Le crisi vanno colte, non vanno fatte cadere. Non possono passare silenziosamente con il loro carico di sofferenze, di dolore e di morte, per lasciare tutto come prima. Per capirne la lezione, si deve guardare avanti e andare oltre, rimuovendo con decisione le ragioni che le hanno prodotte, indicando una prospettiva, mostrando un percorso serio e condivisibile.
Il Covid ha palesemente evidenziato come la nostra sanità pubblica abbia rischiato di esserne davvero travolta: per la carenza di posti in terapia intensiva, per l’insufficienza delle reti di assistenza di quartiere, per la scarsezza di personale, per l’equivoco di ricorrere strategicamente al settore privato in un settore che è, invece, il fulcro del bene comune, non un’impresa che punti al mercato della salute. È un settore, quello sanitario, che va ridisegnato (rivoluzionato), e bene ha fatto il governo, a partire dall’ottimo ministro Speranza, a prevedere abbondanti risorse, tutte destinate a intervenire in principal modo sui limiti dell’attuale modello. Appare evidente che non si tratta di foraggiare la spesa corrente, ma di investire con abbondanti risorse sul comparto sanitario, sul suo futuro, sulla sua efficacia, e cambiarlo radicalmente, secondo le esigenze collettive e i limiti palesemente messi in luce dal virus. Ed è questo, appunto, il progetto del governo: la salute pubblica come bene comune, diritto fondamentale. E persino come volano di sviluppo, se solo si pone testa, per un attimo, a quante potenzialità economiche, di lavoro e di ricerca si spalancano ricominciando a investire sulla salute, smettendola di considerarla sempre e solo un costo.
Va detto che non basta mettere in campo grandi risorse, se poi le classi dirigenti regionali restano le medesime di prima e confermano sostanzialmente il loro operato e il modello sanitario fallimentare. I soldi non sono un problema verrebbe da ripetere, il problema è l’uso che se ne fa e le idee che vengono avanzate. Il rischio è che queste nuove e copiose risorse si incanalino negli stessi rubinetti di prima e vadano a dissetare gli stessi potentati, in special modo privati. Rischio tutt’altro che impossibile, anzi. L’assalto a palazzo Chigi da parte di un blocco composto da grande borghesia finanziaria, da organi di stampa di cui sono proprietari editori ‘impuri’, dalla destra-destra, dai soliti outsider che non vedono l’ora di ripiombare a palazzo Chigi, da potentati e lobbies di varia natura, non è un incubo complottista, ma un fatto realissimo, comprovabile, la testimonianza del senso che si vorrebbe imprimere alla fase due ‘politica’, esemplificata da questo motto: alla crisi hanno pensato gli sfigati che si trovavano al governo, alla ‘ricostruzione’ e alla ridistribuzione delle risorse pensiamo adesso noi. Tanto a fare un nuovo esecutivo, dice Renzi, ci vuole un quarto d’ora. ‘Adesso!’, insomma. Purché, dice Salvini, si getti a mare il “fardello della CGIL”. Matteo 1 e Matteo 2.
Se si tratta di puntellare la ricchezza sociale, non basta però agire sulla sanità.
L’altra colonna è la scuola pubblica, se possibile in condizioni persino peggiori della prima. Questa è anche l’occasione (se non ora quando?) per intervenire pesantemente in questo comparto. Anche qui bisogna raccogliere tante, tantissime risorse e fare finalmente banco! Riqualificazione edilizia, efficientamento energetico, riprogettazione degli spazi e della logistica interna; e poi assunzione di personale, adeguamento del loro stipendio, riforma della didattica, potenziamento delle infrastrutture tecnologiche (l’attuale didattica a distanza è a carico degli insegnanti e delle famiglie!), rilancio dell’immagine della scuola con eventi e iniziative. Si tratta di investire risorse nel capitale pubblico per generare nuova ricchezza sociale e collettiva, come non si è fatto in questi anni di sciocco e imprevidente neoliberismo.
A questo proposito, va detto che è lodevole l’idea di sostenere l’efficientamento energetico del patrimonio immobiliare privato, ritenendolo un volano economico. Ma l’effetto è, tra l’altro, quello di rafforzare ancora una volta il senso di individualismo proprietario che è già oggi dominante, invece di esaltare il senso della cosa pubblica, del patrimonio comune, della ricchezza sociale. Forse non basta puntare ancora una volta sulla marea di piccoli proprietari in cui si è sgretolata la composizione sociale del Paese; magari oggi è il caso di puntare con più decisione sui beni comuni, sulla proprietà pubblica, sulla ricchezza di tutti. Quello che si fa sulla sanità andrebbe ripetuto sulla scuola, anche per dare un segnale culturale, ‘ideologico’ – invertire la tendenza che punta sull’Italia dei piccoli ‘padroncini’, contribuendo comunque al rilancio della economia, semplicemente orientando questo rilancio sui beni edilizi comuni e pubblici, sul patrimonio edilizio dove ogni giorno milioni di bambini e ragazzi, a scuola, diventano grandi e consapevoli.
È forse l’ultima occasione per riequilibrare il rapporto pubblico/privato oggi clamorosamente sbilenco. Con l’avvertenza che se le risorse non andranno a depositarsi nel rilancio dei beni comuni (sanità, scuola, trasporti, ambiente) si muoveranno comunque in senso opposto, ridistribuendo altra ricchezza al settore privato, piccolo o grande che sia.
Siccome i soldi pare che ci siano e non siano un problema, alla sinistra spetta il compito di metterci del suo, puntando decisamente il timone verso il settore pubblico, l’offerta di servizi sanitari, scolastici, di cura, assistenza, solidarietà, trasporti, partecipazione – verso la nervatura comune del Paese, quella che ci traversa integralmente e ci rende una comunità. Questo ci manca, questo senso del pubblico, non le imprese che versano tasse altrove ed esigono da noi, poi, soldi pubblici. Quello era il vecchio modello, ora ne vogliamo uno nuovo, di segno opposto, che poggi su solide colonne pubbliche. La sinistra, insieme a quel mondo che fa della giustizia sociale il cardine del suo impegno, ha un’occasione unica, inaspettata, di fare la sinistra, di indicare un indirizzo di cambiamento, di ribaltare tutto senza limitarsi a gestire lo stato di cose pur con la sagacia, la forza, al generosità e l’intelligenza che sa.
Lo faccia allora, batta un colpo, forte, deciso, perché alle porte ci sono già i barbari di prima, pronti a intascare i dividendi di una crisi che è toccato a noi gestire. Come al solito. Basta ingenuità, quindi. Basta incertezze. Ridateci la scuola, ridateci la sanità, facciamo banco sui beni e la ricchezza comune. Ciò non vuol dire ignorare il nostro privato, i frammenti vitali e sociali in cui siamo scomposti, gli spezzoni che si muovono in libertà, gli individui e la granulosità sociale, versante sul quale, in questi tre mesi, si sono già messe in campo risorse inusitate. Ma di cogliere l’occasione storica di dare un senso di unità a questo panorama frammentato, partendo dal tesoretto della ricchezza pubblica – e di dare un senso al lutto ed elaborarlo pensando al bene comune.
Invece di distribuire soltanto bonus e detrazioni a questo o quello, stavolta si punti una parte consistente del gruzzolo sul Paese preso in sé, si scommetta sulla sua unità e sul suo profilo pubblico. Si può? No, si deve. Senza paura, con buone probabilità di incrociare un consenso che può trovare finalmente rappresentazione.