Inizio sera, tardo pomeriggio del 27 ottobre 1962, un tuono e un lampo squarciano la pioggia che cade e la nebbia che cala implacabile sulla campagna pavese e fanno sussultare Mario Ronchi, agricoltore, che in sella al suo trattore sta facendo ritorno da Bascapè alla cascina Albaredo dopo aver atteso e preso accanto a lui la figlia che ha spettato alla fermata della corriera che arriva da Melegnano; sulla strada verso casa percorsa lentamente sul trattore intravede un grande incendio che non può essere causato, così improvviso e potente, dalla caduta di un fulmine. A casa, sua madre gli racconta di aver udito anche lei un forte rumore, insolito, non di temporale.
In quel lampo, dentro quel tuono perdono la vita Enrico Mattei, il pilota Irnerio Bertuzzi e il giornalista americano di Time-Life William McHale che viaggiava con Mattei sul piccolo aeromobile che da Catania lo doveva riportare a casa, perché incaricato dal suo giornale di scrivere un articolo su questo singolare dirigente d’azienda italiano che, contravvenendo alle direttive di Merzagora, anziché liquidare l’Agip l’aveva rimesso in piedi, creando l’Eni ed entrando in diretta concorrenza nientemeno che con le grandi e potenti “sette sorelle”, le compagnie statunitensi padrone dello sfuttamento petrolifero dei Paesi del Medio Oriente e del nord Africa e regine dell’approvvigionamento energetico dell’Europa occidentale.
Enrico Mattei, classe 1906, figlio di una famiglia umile, ragioniere. Enrico Mattei cattolico di sinistra, marchigiano originario di Acqualagna, piccolo paese tra Gubbio e Fossombrone, partigiano “bianco”, combattente, e componente del CLNAI dove allacciò una sincera amicizia con Luigi Longo futuro segretario del PCI, un’amicizia che gli consentì come presidente dell’Eni di stipulare importanti accordi commerciali con l’Unione Sovietica.
Enrico Mattei, già vicepresidente dell’ANPI che nel 1947 fondò l’Associazione Partigiani Cristiani.
Enrico Mattei, quello che il 75% dei proventi delle concessioni di estrazione del greggio doveva restare nelle casse dei governi locali, nei Paesi che conservavano nel sottosuolo quella ricchezza, semplicemente perché spettava loro, perché l’Occidente europeo che si stava riprendendo e rinascendo dalla grande tragedia distruttrice della seconda guerra mondiale metteva le tecnologie, ma quell’oro nero era di proprietà di quelle genti e dei loro governi.
Enrico Mattei, quello che gli accordi con il governo algerino si possono fare a patto che che l’Algeria sia degli Algerini.
Enrico Mattei, quello che aveva a cuore la rinascita e il progresso dell’Italia, ma non a costo di depredare altri Paesi, altre popolazioni, quello che lavorava e sognava di rendere compatibili la crescita propria con la giusta retribuzione dei Paesi che serbavano nel proprio sottuosuolo la ricchezza che tale crescita avrebbe permesso.
Un anticolonialista in fondo e, se non si avesse paura di pronunciare questo vocabolo, un antimperialista, attento agli interessi del proprio Paese, ma consapevole, con lungimiranza, che la ricchezza e il progresso possono avere una strada più agevole se ce n’è per tutti.
Si è scontrato con il totem del profitto al quale non importa altro che l’aggio di ristrette cerchie, che non ha alcun reale interesse al progresso, alla crescita, cui importa solo il proprio arricchimento.
In quel lampo improvviso, in quel tuono imponente che squarciò la sera piovosa e umida della campagna pavese si consumò un capitolo importante della nostra storia.