Un libro che cattura, oltre che per i temi trattati, per la qualità della scrittura. Per la pluralità dei registri. Per la vastità composita degli interessi. Per la tensione critica di un filo narrativo teso su una coscienza inquieta ed esigente. Lo stile in forma di stilo – acuto, nitido, elegante. E’ Bruno Trentin, Diari 1988-1994. Gli anni della segreteria generale della Cgil (a cura di Iginio Ariemma, Roma, Ediesse, 2017). Un diario deve saper restituire un accento inconfondibile; quello di Bruno Trentin risiede nella sua intelligenza, talvolta nella sua insoddisfatta intransigenza, con la solitudine che essa comporta; nell’amore per la lettura di un lettore onnivoro, per quanto selettivo; nella passione irrinunciabile per la montagna; nella testimonianza di una depressione, vissuta, sulla pagina, senza inibizioni, senza patetismi.
Siamo in presenza di una serie di appunti e annotazioni, propositi e riflessioni, in un racconto che si svolge, pur con le inevitabili interruzioni, tra gli anni 1988 e 1994. Sono quelli in cui Bruno Trentin svolge l’incarico di segretario generale della Cgil. Nel pieno della transizione italiana, in un prisma variato di temi: dal socialismo come un processo aperto, non un sistema chiuso; all’idea di una sinistra come innovazione che non separi, ma unisca, politica e società; sino al richiamo kantiano all’“uomo come fine e non come mezzo” (p. 41).
In apertura, alcune pagine di Marcelle Marie Padovani, che ricorda che i diari di Bruno Trentin “coprono venti quaderni diligentemente scritti a mano con una grafia molto leggibile, e con molte citazioni in francese e in inglese”, domandandosi, senza reticenze, se Bruno Trentin ne avrebbe gradito la pubblicazione, così rispondendo: “Non lo sappiamo, ma per testamento ha lasciato a me, sua moglie, il compito di decidere se, quando e come pubblicarli”. Nella prefazione, L’intellettuale sindacalista, Iginio Ariemma, cui si deve un lavoro prezioso, ricorda come si tratti, complessivamente, di un patrimonio archivistico di 20 quaderni che si dispiegano lungo quasi quarant’anni con una mole documentaria enorme.
Nella nota biografica in fondo al volume (Una vita straordinaria, p. 503 e ss.) si ricorda la nascita, il 9 dicembre 1926, a Pavie, vicino a Auch, nella Guascogna e una formazione tra il Partito d’azione e le figure di Norberto Bobbio e Vittorio Foa: quel filone, culturale e politico, di ascendenza socialista, che ha contribuito a nutrire la sinistra italiana, rendendola originale. E’ affascinato dalla rivoluzione francese: dalla “contraddizione feconda tra libertà (dell’uomo) e uguaglianza (fra gli uomini)” (p. 96). Riprendendo un passo di Karl Polanyi (La libertà in una società complessa, tradotto nel 1987 da Bollati e Boringhieri, p. 185) si sofferma sull’idea di un’estensione dell’habeas corpus, il primo istituto di garanzia della libertà personale, al mondo produttivo, alla “rappresentanza degli operai” (p. 83).
Per chiarezza, una piccola precisazione. Nel testo sono tanti i riferimenti a circostanze e persone. Non credo necessario soffermarsi sui singoli episodi, riprendendo giudizi specifici. Una recensione è un invito alla lettura, per la quale, appunto, c’è il libro. Piuttosto, proverei a fissare alcuni campi tematici, almeno quelli più consistenti, per come emergono dal mare magnum delle concentrate divagazioni di Bruno Trentin. Intanto il fastidio, che talvolta si trasforma in disgusto, per il “piccolo cabotaggio”, per le meschinità nella vita pubblica: dall’“inseguimento del nulla” alla “guerra di nani”, dai “mercanti di tappeti” alle “diatribe procedurali e aria fritta”. Non occorre esser fuori dalla politica per capirlo. Ad un certo punto Bruno Trentin, con sorprendente anticipo, parla di una ideologia della casta (p. 144); soffermandosi su attitudini nazionali quali il macchiavellismo volgare, il trasformismo e il neocorporativismo di una “una classe politica omogenea e solidale” orientata a garantire “ad ognuno dei suoi componenti – non ad altri – una chance per la sua avventura personale”. E aggiunge: “scomposizione e ricomposizione di schieramenti senza programmi e senza principi che non siano riconducibili alla loro sopravvivenza nella distribuzione dei poteri” (p. 308). Soffre di fronte allo schema amico-nemico: “Il prossimo, l’altro, il compagno diventa così il feticcio, il simbolo, di un possibile nemico, di un possibile responsabile della propria rovina, in una lotta che diventa di pura sopravvivenza: escludere, buttare giù, per restare in piedi un momento di più. Come se questo fosse il problema e non il destino e le speranze dei propri simili” (p. 350).
E poi: pochezza e improvvisazione: questi alcuni dei termini usati (cfr. in particolare p. 171). Con questa chiosa: “Più passano i giorni e più mi sembra convincente l’allegoria primitiva contenuta nell’ultimo film di Moretti, La Palombella Rossa: “Siamo uguali ma siamo anche diversi… Mamma vieni a prendermi” (lo scrive il 30 settembre 1989; il film era uscito il 15 settembre; a p. 108). E’ impressionante la lucidità con cui Bruno Trentin intravede la deriva dell’economia di carta: “In Italia, nei governi (ma questo è logico) ma anche nei sindacati e in tutta la sinistra, la questione del debito pubblico non è mai stata esaminata nelle sue cause più profonde e nelle sue spaventose conseguenze” (lo scrive a San Candido il 2 gennaio 1994; in quell’anno vi era stato un picco sino al 121,84%; oggi siamo al 132,70%; p. 413). Sulla questione morale, nessun moralismo: essa “nasce da una perdita di senso della politica, delle sue ragioni originarie” (pp. 309-10). Non risparmia osservazioni sulla vita sindacale, con i giudizi sulle altre componenti, sulla stessa confederazione della quale porta la massima responsabilità; e non fa sconti a nessuno: “Pensando alla CGIL mi sento prigioniero di mille lacci” (p. 133); preso in “un groviglio di intrighi” (p. 236).
Ogni tanto si lascia andare ad un liberatorio Preferisco arrampicare (p. 238). La montagna: “una liberazione dalle mie miserie e dalle mie debolezze” (p. 51). Piccoli istanti di felicità, quelli trascorsi “a scovare marmotte enormi e camosci – un incanto” (p. 101). Viaggia moltissimo, instancabilmente, lasciando aneddoti e ricordi, su Lubecca e Bruxelles, New York e Treviri: “Visita nella casa – restaurata – del vecchio Marx. Lettere e manoscritti, articoli per l’Herald Tribune e una strana poesia d’infanzia per il compleanno del padre. Scrittura commovente: sembra una calligrafia ebraica anche quando scrive in inglese, straordinariamente ordinata e diligente” (p. 213). E poi il movimento fisico, la ginnastica, le corse a Villa Borghese. Spesso torna sull’idea di proteggere il tempo dedicato alla vita rispetto a quello costretto nel lavoro: “Bisogna che mi difenda o finirò come un giocattolo rotto” (p. 53). Bruno Trentin non solo leggeva molto, sapeva anche leggere, cioè apprezzare la qualità della scrittura. Un incessante rovello, dal saggio al romanzo, da Hannah Arendt a Philip K. Dick, delineando una borgesiana biblioteca di Babele. Era rapito dagli Essais di Michel de Montaigne. Non solo la cultura dei libri; attraeva Bruno Trentin anche quella dei fiori, un modo “per investire un po’ nel futuro” (p. 54), come ripeteva, non senza un pizzico di amara ironia. Sotto traccia, la fatica di vivere, in un’esclation di cui i Diari, come il pennino del sismografo, restituiscono ogni più impercettibile movimento. Si sente “immerso in uno stato d’animo di disperazione e di abulia insieme” (p. 352). “Oggi – scrive – mi ha telefonato Angela per dirmi, con altre parole, che sono diventato un bersaglio per i rottami di Prima Linea. I conti tornano e non mi sono sentito né sorpreso né particolarmente angosciato. Sarebbe una fine possibile e non una delle meno dignitose” (p. 324). “Leggo poco. Sono troppo stanco, stanco, stanco” (p. 357). “Devo ogni volta strapparmi dal mio stato di letargo e di meditazione ed entrare in un altro mondo” (p. 368). Ci sono momenti in cui si sente “quasi senza meta”, “come un uccello colpito al cervello che perde l’orientamento e vola verso il nulla” (p. 398).
Non mancano i bagliori che rischiarano le tenebre, con alcune osservazioni, penetranti, su Federico Fellini (p. 388). O affettuose per l’amico Giovanni Falcone, che incontra durante le vacanze, mentre, insieme a Marcelle Marie Padovani, sta scrivendo il libro sulla mafia. Partecipa ai suoi funerali: “Sembra assurdo e incredibile e tanto più incredibile perché si trattava della puntuale verifica di uno dei suoi teoremi: ‘quando uno è solo è delegittimato’. Mi ritornano alla mente tutti i nostri incontri, con insistenza ossessiva, giorno e notte” (pp. 288-9). Il periodo forse di maggiore sofferenza tra il luglio 1992 e il luglio 1993. Per Bruno Trentin è l’ultimo anno del suo mandato di segretario della CGIL; durante il quale affronta due accordi: il primo in data 31 luglio 1992 con il governo presieduto da Giuliano Amato; il secondo, un anno più tardi, con il governo presieduto da Carlo Azeglio Ciampi, all’inizio di luglio, quello che segna il senso delle relazioni sindacali, attraverso la concertazione, diventandone un modello. Per lui è una rivincita rispetto alla precedente intesa, oggetto di tante incomprensioni, per aver accettato il superamento della scala mobile. Trentin s’impegna anche nella riforma del rapporto di lavoro nella pubblica amministrazione (fissata nel decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29).
Lavora a una Conferenza programmatica della CGIL, rinviata più volte, che si tiene tra il 2 e il 4 giugno a Chianciano, nello stesso luogo in cui si tenne quella all’inizio della sua segreteria nella primavera del 1989. Nel Comitato direttivo della CGIL del 27-29 giugno si congeda. Coltiva l’idea di scrivere un saggio, il “mio saggio”: “‘Ritorno all’utopia’ potrebbe essere un buon titolo” (p. 385). “Voglia di studiare, di imparare ancora. Penso molto al mio libro, come ad un “Back to the future”, “Back to utopia”. L’utopia del quotidiano, ed un’ansia dell’utopia vissuta – aggiunge – che era all’opposto della volontà di potenza per cambiare gli uomini e renderli felici contro se stessi. Chissà se ce la farò” (p. 392). La relazione di Chianciano uscirà come instant book presso l’editore Donzelli. Da Rizzoli col titolo Il coraggio dell’utopia l’intervista con Bruno Ugolini. Tre anni più tardi, da Feltrinelli, La città del lavoro.
Non di rado, in politica, a proposito di volontà di potenza, si tende a stabilire un giudizio di valore sul contrasto tra la forza e la debolezza (una forma di inconsapevole recupero di nozioni nicciane). Bruno Trentin, forte, certamente, lo è stato; ma non solo forte, anche capace di affrontare le fatiche, le fragilità, le zone d’ombra del male di vivere. La crisi di cui parliamo è più profonda e sottile di quel che, in genere, ci raccontiamo. Non riguarda solo cose; ma anche persone. Questi Diari ne portano il segno. Scrive Bruno Trentin: “mi pesa molto dovere prendere la parola” (p. 209). “Tutto sembra crollare e disfarsi” (p. 257). Parla di un’“incapacità di esprimermi” (p. 306); di una “perdita di senso” (p. 309). Espressioni che fanno tornare alla mente un autore, molto diverso da lui, come Hugo von Hofmannsthal. Uno dei più raffinati drammaturghi tra Otto e Novecento. I dorsi dei suoi libri impreziosiscono le buone librerie. All’inizio del secolo scorso risale una sua riflessione, in forma epistolare (Lettera di Lord Chandos), rimasta famosa, intorno al naufragio della parola, alla sua insignificanza. Lì si spiega di aver “perduto ogni facoltà di pensare o di parlare coerentemente su qualsiasi argomento” con un “senso di vuoto”.
Qualcuno ha parlato di crisi dei fondamenti. Di qui l’esigenza di ripartire dalle fondamenta. I Diari di Bruno Trentin, scritti all’inizio di una crisi della politica che ha determinato una transizione nella quale tuttora siamo, letti oggi, quando quella crisi, lungi dall’essere stata superata, ha raggiunto un punto culminante, ci restituiscono, intatto, il tema della responsabilità della parola. Usata, abusata; logorata, usurpata; in un soprapporsi di voci, in un rumore di fondo che non più in grado di comunicare. Le parole son state dette tutte: eppure non son servite. Non si tratta di continuare a produrne, in un vortice senza fine; si tratta di stabilire un punto di discontinuità, perché si dia una parola, non solo nuova, ma dotata di senso. Il punto non è nella disputa tra un futuro senza radici e un passato avvolto nella nostalgia; ma nella capacità di raccogliere le domande, sempre nuove e diverse, di una composizione sociale in continua trasformazione. I Diari di Bruno Trentin dicono questo; sono coscienza di questo. Non senza una drammaticità, una radicalità, che contribuiscono a conferire autenticità alla sua riflessione. Lo spleen malinconico sempre unito alla tenace ricerca delle soluzioni possibili. Non solo un termometro che misura la febbre; anche il farmaco che occorre oltre i “gadgets del tutto svuotati da qualsiasi contenuto progettuale” (p. 226); per “resistere a questa finta lotta politica, a questo groviglio di apparenze e di velleità” (p. 301). In Trentin il disagio personale è motivo per l’elaborazione di un patrimonio di pensiero, fertile e attuale, al servizio di una sinistra capace di proporsi il terreno del governo “senza perdere l’anima” (p. 444).