Jack ha 5 milioni di follower, e 0 voti. Al secolo Jack Dorsey, su Twitter @jack, di questa piattaforma privata è il creatore.
Donald aveva 88 milioni di follower sul suo account @realDonaldTrump, oltre 123 milioni se consideriamo l’altro suo account @POTUS. Per quanto concerne i voti Trump, al momento Presidente degli Stati Uniti d’America, ha appena ricevuto 74 milioni di voti, 137 milioni se si considera l’elezione del 2016 in cui è stato eletto, secondo un’espressione forse obsolescente ma senz’altro suggestiva, leader del mondo libero.
Il leader del social privato in oggetto ha deciso, in ultima istanza, che Trump dapprima dovesse venire censurato per i suoi post circa lo spoglio elettorale e la (a dir poco) dubbia presunzione di fantomatici brogli ai suoi danni, dopodiché in queste ore ha stabilito in via unilaterale e permanente che il Presidente dovesse esser fatto fuori dal social network in via definitiva senza alcuna possibilità di difesa, contraddittorio o perdono. Sussiste negli Stati Uniti come in Italia la possibilità, per il Capo dello Stato, di esercitare il presidential pardon – o grazia – ma non sussisterebbe, nel privato di Twitter, alcuna possibilità di redenzione.
Tra i motivi addotti da Jack ad excusatio del provvedimento, il più valido pare oltre ogni ragionevole dubbio quello dell’incitamento alla violenza da parte di Donald Trump. In effetti, la violenza dei suoi supporter a monte (e culmine) del suo ultimo comizio “Save America March”, invitati dal Presidente esplicitamente a “marciare pacificamente e patriotticamente su Capitol Hill” ha portato all’indiretto e diretto decesso di cinque persone, tra cui un ufficiale di polizia. Il che pone innanzitutto un interrogativo immediato e ineludibile: viene prima la “libertà” – di espressione, in qualsiasi senso, verso e modalità – o la vita?
Come ho recentemente scritto in merito a una dibattuta docuserie, prima ancora delle libertà individuali, viene la vita della comunità, o au contraire se vogliamo prima ancora della libertà di gruppo, viene la vita di ciascun singolo. Anche a scapito della libertà individuale, ed evidentemente anche a scapito della libertà di farsi o fare del male, del provocare danno, dolore, distruzione o morte.
C’è un terzo principio che fa e deve fare (senza titubanze, timidezze o timore di censure) capolino, ed è quello della democrazia.
Trump ha diritto di dire la sua sulla più importante piattaforma di comunicazione politica mondiale? Jack ha diritto di non fargli dire la sua più su nulla, inibendone la libertà – di più: la possibilità – di parola ad libitum poiché la piattaforma è privata, è sua?
La proposta prospettica che formuliamo in questa sede è che Donald Trump non ha diritto alcuno di mentire sulla democrazia e ancor (ben) meno di incitare alla violenza, e che Twitter nei giorni dello spoglio fino ai più recenti abbia applicato una policy di etichettatura dei suoi post elettorali come “discutibili” e di rimozione dei suoi post incitatorio-incendiari pare ragionevole.
Non è scappatoia, panacea o giustificazione condivisibile sostenere che dato che Twitter è di Jack, Facebook di Mark eccetera, i social network ideati da questi giovani e brillanti imprenditori statunitensi siano una terra franca, nel senso di terra dove si applichi la clausola di supremazia del Frank, del Mark o del Jack di turno.
Il discorso sopra, sotto, attorno e dentro la grande questione del secolo nuovo, la democrazia digitale, è complesso e ancora agli albori dell’esser battuto e dibattuto, ma lavarsi mani e mouse, computer e coscienza limitandosi ad affermare la supremazia del privato rispetto a degli “iperspazi” con milioni di utenti le cui implicazioni includono e impattano le esistenze di milioni, miliardi di persone, di cittadini, e che quindi vanno regolamentate dal pubblico e non solo lasciate a sé stesse e al loro spadroneggiare mentre sorvegliano, catturano e mettono a capitalistico profitto il nostro surplus comportamentale, i nostri profili, le nostre esistenze digitali, ebbene pare insufficiente, irricevibile, inaccettabile.
Insomma, dal too big to fail al too gigantic to not be accountable – troppo giganteschi per non dover rispondere al pubblico.
No, non trattasi in via esclusiva di piattaforme private il cui unico dominus può e deve essere il profitto, e se questo è generato sulle (e alle) nostre spalle, allora la quæstio democratica diviene dirimente, e cresce allo stesso ritmo del crescere dei profili (ancora: delle persone, dei cittadini) e dei profitti che questi profili portano.
Se non è accettabile un capitalismo compassionevole ancor meno lo è un capitalismo della sorveglianza giudice unico e ultimo del dialogo democratico tra la cittadinanza e i rappresentanti eletti della stessa.
Trump ha perso le elezioni, ma potrà ripresentarsi fra quattro anni, pur non essendo esattamente, potenzialmente, una splendida notizia. Trump ha perso gli account Twitter, e qualche tweet bene ha fatto Jack a limitarlo o rimuoverlo, ma che non possa più parlare né ora né mai e che milioni e milioni di suoi follower ed elettori non possano più comunicare con lui, non è affatto una bella notizia. Nel vuoto normativo, è un vuoto a perdere che presto o tardi potrebbe essere covato e colmato. Di odio. C’è da sperare (e ci sarà da legiferare, a Bruxelles come a Washington e oltre) che la pezza di Jack non sia peggiore del buco.
p.s.
che regimi totalitari come Cina, Iran, Korea del Nord e Turkmenistan blocchino i propri cittadini dal poter accedere a social network come Twitter è bavaglio inversamente ma egualmente inaccettabile: anche qui, non si sta inibendo l’accesso a una piattaforma privata, bensì innanzitutto si sta inibendo l’interconnessione, la comunicazione, il confronto e la condivisione di pensiero ed azione con centinaia di milioni di persone.