La scena è quella che meglio di ogni altra immortala il passaggio dalla Seconda Repubblica all’inizio della Terza, l’icona di una stagione-ponte verso il nebbioso grigiore di un futuro inquietante e indecifrabile: Matteo Salvini al centro di uno studio televisivo, che squaderna a beneficio di telecamere la consueta ridda di slogan tagliati con l’accetta. “Il 25 aprile? Non mi iscrivo a un derby tra fascisti e comunisti. La vera liberazione è quella dalla Mafia, e io, il 25 aprile, vado a Corleone”.
L’impulso del democratico medio di cambiare canale – riflesso automatico e autodifensivo rispetto alle esternazioni del Capitano Verde – viene questa volta paralizzato dalla forza di una domanda, figlia illegittima di un ricordo balzato fuori dalle pagine sgualcite del Romanzo delle Stragi in cui si identifica la storia italiana del dopoguerra: ha senso una comparazione tra antimafia e antifascismo? I valori dell’antimafia non sono essi stessi espressione dei principi democratici che sgorgano dalla Lotta di Liberazione, per andare a costituire il substrato fondante della Carta Costituzionale?
La risposta, si diceva, sta tutta in quel ricordo: nel ricordo di una giornata di maggio del 1947, nella Sicilia appena uscita dalla seconda guerra mondiale; voglia di cieli puliti dalle bombe, fame di libertà che invade l’aria. I lavoratori si radunano per celebrare la loro festa, si radunano per urlare “terra ai contadini!” in faccia alle logiche di campieri e latifondisti, si radunano per celebrare la Repubblica che sta per nascere: fondata sul lavoro. Si radunano, a Portella della Ginestra.
All’improvviso, quella festa di popolo viene spazzata via da una pioggia di fuoco e piombo, che lasciano sull’erba insanguinata undici morti e quarantasette feriti. E’ una strage: il primo capitolo del nostro maledetto romanzo. Chi ha sparato, e perché? A sparare, è stato Turiddu Giuliano, il bandito di Montelepre prima contaminato da rigurgiti reazionari veicolati attraverso istanze separatiste, e poi trasformato nella pedina di un gioco grande, destinato a concludersi con la più classica delle fucilate alla schiena.
Perché ha sparato? Proprio perché era diventato una pedina, Turiddu Giuliano: una pedina nelle mani degli esponenti di quei centri di potere che troppe volte, negli anni a venire, troveranno nella connessione con il sodalizio mafioso lo strumento utile a conservare certi equilibri, condizionando con la violenza il libero svolgimento delle dinamiche democratiche. Politica opaca, spioni e banditi, patti segreti e sangue per le strade: già emergono le componenti essenziali del filo conduttore che tiene insieme i vari capitoli del romanzo delle stragi, scandito da tre parole capaci di conservare, malgrado il fluire del tempo, tutta la loro carica nera: strategia della tensione.
Il ricordo di Portella della Ginestra strappa allora un sorriso pieno di amarezza al democratico medio, ancora tentato di assecondare l’impulso di cambiare canale: che vada a Corleone, Matteo Salvini; che celebri in quella terra ancora squarciata dalle pallottole del bandito di Montelepre, il suo 25 aprile. Scoprirà, forse con una punta di stupore, di essersi involontariamente costretto a partecipare al derby a cui aveva sperato furbescamente di sottrarsi, a vivere in prima persona il confronto tra coloro che hanno sacrificato la propria vita in nome di quei principi democratici che rendono la nostra Costituzione figlia della Resistenza e quanti, dopo averne osteggiato l’affermazione, hanno barattato la stabilità di quegli stessi principi sull’altare di un pactum sceleris con le varie anime del potere criminale. Scoprirà che, vanificando ogni possibile contrapposizione, i valori dell’antimafia finiscono con l’identificarsi con i valori dell’antifascismo, con i valori che ispirano la celebrazione, in tutte le piazze d’Italia, di ogni 25 aprile: soprattutto del 25 aprile a Corleone, soprattutto del 25 aprile che si accinge a vivere il Capitano Verde.