Scriveva Emmanuel Lévinas che il volto dell’altro è l’atto che convoca l’essere umano a una responsabilità originaria dell’uomo verso l’altro uomo. Nel volto dell’altro, che per Lévinas – autore profondamente e consapevolmente intessuto nel giudaismo – è prima di tutto il volto concreto della persona, le sue rughe, il suo sorriso, i suoi occhi, l’essere si manifesta come esteriorità e, soprattutto, si stabilisce il primato dell’etica, che è assunzione su di sé dell’altro, legame originario che dà senso al mondo.
Possiamo prendere a prestito questa immagine del filosofo, di origini lituane e naturalizzato francese, per comprendere il rovesciamento che la pandemia ha indotto ai paradigmi, agli schemi concettuali con i quali eravamo soliti considerare la realtà, i rapporti interpersonali e tra le collettività, e, su di essi, edificare i nostri sistemi istituzionali, economici, sociali (la struttura e la sovrastruttura, ad utilizzare un linguaggio gramsciano).
Perché il dato paradossale che questo tempo porta con noi, infatti, è proprio il nascondimento del volto dell’altro, il cui accesso da quasi un anno è mediato da un dispositivo di protezione individuale, la mascherina, che abbiamo imparato essere fondamentale per preservare la salute, personale ma soprattutto degli altri. Un dispositivo talmente residuale nella contemporanea economia che l’occidente aveva scelto di non produrre più, delegandone la fabbricazione alle nuove fabbriche del mondo asiatiche.
Oggi è attraverso l’assenza del volto, il suo nascondimento, che esercitiamo la massima responsabilità verso l’altro, proteggendolo dal potenziale contagio del virus, in questo compiendo un atto che è esattamente etico, perché riguarda prima di tutto la relazione tra me e l’altro-da-me, e le modalità con le quali riempio lo spazio tra noi due.
Uno dei dati veri è che questa parte del mondo – l’occidente e le sue democrazie mature – aveva semplicemente dimenticato l’importanza straordinaria che l’atteggiamento del singolo ha per gli altri, per il sistema concreto delle relazioni in cui siamo immessi fin dall’inizio della nostra esistenza, e che ci rende uomini solo nella misura in cui abitiamo la polis.
Come ci stanno giustamente ricordando in queste settimane le principali autorità sanitarie, in attesa della messa a regime della vaccinazione di massa e dell’instaurarsi dell’immunità di gregge, il rimedio più efficace rimane quello compreso in piccoli ed elementari gesti quotidiani: coprire il volto, distanziarsi, detergersi con continuità.
Può sembrare strano, ma avevamo perso la consapevolezza che il nostro comportamento – si badi bene, quello della più banale quotidianità – è determinante per tutti gli altri, per quelli che ci sono vicini ma anche per quelli che ci sono meno prossimi, vista la viralità del Sars-cov-2.
Da animali politici, avevamo smarrito la consapevolezza dell’ecosistema in cui viviamo, e consideravamo la salute piuttosto un fatto personale, assicurabile mediante un costante ricorso alla tecnica. Posto che la realtà e la storia siano in grado di offrirne, il primo insegnamento che dovremmo trarre da questo periodo lungo ormai quasi un anno – che davvero assomiglia alla sospensione del salmo di Isaia, in cui ci chiediamo con angoscia quanto resta della notte – è che tecnica ed etica devono stringere un nuovo patto.
La seconda riflessione che è opportuno derivare dalla nostra condizione di donne e uomini ad una inedita fragilità globale è la nuova centralità dei beni pubblici. Infatti, pur nelle diversità dei sistemi istituzionali e dei contesti politici di riferimento, è fuori di dubbio che i paesi che sono stati in grado di costruire le reazioni più efficaci sono quelle in cui esistevano – e sopravvivevano nonostante il mainstream neocapitalista degli ultimi decenni – sistemi di welfare gestiti dallo Stato nelle sue diverse articolazioni, piuttosto che forme di assicurazione universale anch’esse garantite pubblicamente.
Questa centralità riguarda senza dubbio la salute, ma anche l’ambiente, se è vero che la propagazione del virus all’essere umano è avvenuto attraverso lo spillover, il salto di specie agevolato dal progressivo azzeramento della distanza tra ecosistemi, e se è vero che il livello di inquinamento delle diverse regioni mondali, insieme al progressivo invecchiamento delle società a “democrazia matura”, sono stati fattori concorrenti nell’agevolare gli alti tassi di contagio registrati negli Stati Uniti, in Europa, ma anche in paese di altre aree regionali che però stanno conoscendo un processo di rapido degrado – dovuto a scelte politiche ben precise – del proprio patrimonio naturale (come per esempio il Brasile del presidente Bolsonaro).
All’interno della centralità dei beni pubblici e delle politiche atte a sostenerli credo vada inserita la necessità di un nuovo rapporto tra scienza, politica, foro pubblico. È un dato ormai consolidato che l’opinione pubblica, ma anche il decisore politico, sono nel tempo scivolati in un vero e proprio analfabetismo funzionale che colpisce in particolare la relazione tra costruzione di senso comune e informazione scientifica. Tale processo è – se possibile – esaltato dai social network , facili propalatori di fake news e novelli agit-prop delle più svariate campagne dei movimenti no-vax e complottisti, su cui però trova saldatura anche parte della neo-destra populista.
L’esposizione alla pandemia, il fatto che essa giunge, se non a toccarci direttamente, a intaccare la sfera intima dei nostri affetti oppure delle relazioni più prossime fa riemergere quella condizione di fragilità che in molte società dell’occidente era andato smarrito ovvero si era di molto attenuato. In verità, questa fragilità è probabilmente la prima vera esperienza globale dell’umanità da molte generazioni a questa parte.
Se questo è vero, dobbiamo riattrezzare strumenti davvero globali per farci carico di questa condizione. In questo senso, il primo obbligo che le società cosiddette avanzate (almeno sotto il profilo delle loro economie) devono porsi è quello di assicurare che i vaccini, di cui ora si sta cominciando la distribuzione, siano resi disponibili a tutti i paesi del mondo. Universale e gratuito per tutti i cittadini del pianeta, tale deve essere il vaccino, e non è possibile che esista una serie A e una serie B nella disponibilità e nella somministrazione (anche perché questa bipartizione sarebbe una nuova ridefinizione del cleavage paesi ricchi-paesi poveri).
È vero che esiste il programma COVAX co-condotto da OMS e GEVI per l’accesso globale al vaccino covid-19, ma è necessario non introdurre discriminazioni nell’accesso al vaccino e lanciare fin dalle prime settimane del 2021 una campagna planetaria per la vaccinazione, perché è sotto gli occhi di tutti come la somministrazione di vaccini esige una infrastuttura statuale di supporto (hub di stoccaggio, rete di distribuzione, presidi di somministrazione, catena del freddo per il mantenimento) che solo pochi paesi possono garantire. In questa direzione, sarebbe auspicabile che il primo atto dell’amministrazione democratica di Joe Biden fosse l’ingresso degli Stati Uniti nel programma (e il secondo – si parva licet – il ritorno all’accordo per il clima di Parigi).
L’impegno ad assicurare l’accesso gratuito e globale al vaccino deve essere parte di un’assunzione di responsabilità universale della comunità dei paesi; è ormai divenuta chiara la necessità di una risposta comunitaria e non più individuale al grande tema della salute delle persone. Se questo è vero, ciò che serve è allora la creazione di una infrastruttura sanitaria pubblica globale, come per altro sostenuto dalla giornalista e divulgatrice scientifica Laurie Garrett nel testo Betrayal of trust: the collapse of global public health .
In effetti, la rapidità con la quale si è arrivati alla messa a punto di un vaccino per il sars-cov-2, grazie a uno sforzo straordinario da parte dei paesi coinvolti e delle medesime aziende private, in ottemperanza ai protocolli di sperimentazione e validazione previsti dalle principali agenzie statali e comunitarie, la scelta dell’UE di procedere per la prima volta a un acquisto unitario per tutti i paese membri, ci dicono una cola cosa: è possibile dare una risposta a molta parte delle emergenze sanitarie che oggi coinvolgono la maggior parte dei paesi in via di sviluppo.
Sars-cov-2 per molte aree del pianeta (l’Africa, ma anche ampie parti del sud-est asiatico) è solo l’ultimo di una serie di virus che nel passato anche recente hanno flagellato queste popolazioni. La reazione prodotta per la messa a punto del vaccino può consentire a una infrastruttura sanitaria pubblica e globale, cui soprattutto i paesi ricchi dovrebbero contribuire, di alleviare una parte considerevole delle sofferenza sanitarie della maggior parte della popolazione del pianeta.
Si è detto, giustamente, che dopo la pandemia nulla sarà come prima, e che il mondo di ieri non tornerà più. Questa affermazione è probabilmente vera, ma tuttora impregiudicato rimare quali saranno gli assi di riferimento del tempo nuovo in cui entreremo: se il ripensamento del modello di sviluppo sociale ed economico porterà ad esempio a una effettiva riduzione delle diseguaglianze, a un rinnovato patto tra cultura e natura, oppure se le disuguaglianze saranno ulteriormente esacerbate, se il processo di disgregazione e parcellizzazione del lavoro indebolirà ancora di più le persone.
Per uscirne nella prima direzione, è probabilmente necessario recuperare la primazia della cura, intesa come atteggiamento costitutivo dell’uomo che prende su di sé, si fa carico dell’altro-da-sé, sia questa alterità individuata nel proprio gruppo sociale, nella propria comunità nazionale e globale, ma anche nell’ambiente e nella natura.
È questa la dimensione antropologica della fraternità, su cui insiste papa Francesco nella sua lettera enciclica Fratelli tutti, come convocazione delle grandi narrazioni dell’umanità a una comune responsabilità nei confronti dell’uomo, una dimensione cui la politica dovrebbe – in termini e forme del tutto laiche – ampiamente abbeverarsi.
Infine, è giusto e opportuno chiedersi cosa potrebbe e dovrebbe fare la politica, e soprattutto, la sinistra, anche italiana, di fronte a questo scenario. Un uomo abituato ai pensieri lunghi, Enrico Berlinguer, nel 1982, al congresso nazionale della FGCI, lanciò la proposta di organizzare un “grande congresso di futurologia” in cui invitare gli scienziati attivi nelle diverse discipline fisiche, demografiche, sociali, con il compito di diffondere i risultati degli studi più recenti sui problemi del rapporto tra risorse e popolazione, tra sviluppo e ambiente, nella consapevolezza che “la realtà ha richiamato la necessità di una visione più ludica del futuro del mondo”.
Provi la sinistra, in Italia e in Europa, ad aiutare la necessità di questa visione. All’inizio di un anno che vedrà sperabilmente la svolta nella lotta alla pandemia, ma lascerà sul campo di Agramante della questione sociale una serie di nodi drammatici da sciogliere, sia la sinistra a creare uno spazio in grado di rendere meno opaca la visione del futuro.
Si convochino davvero gli esperti delle principali scienze, a partire da quelle mediche e ambientali, ma allargando lo sguardo, a filosofi, creativi, artisti, agli esponenti delle religioni, perché se è vero che politica è – secondo la definizione di Ernesto Balducci – essenzialmente “organizzazione della speranza” è chiara la necessità di costruire uno sforzo collettivo perché davvero il tempo trascorso non sia passato invano.