Il cinema non è mai neutrale. Anche nell’epopea western, sempre ripresa, prevale un certo punto di vista, per lo più quello dei vincitori. Pionieri contro pellerossa. Da ultimo, nello scenario, algido e desolante, allestito da Alejandro González Iñárritu per The Revenant. Oppure giubbe blu contro sudisti, i primi portatori di libertà e progresso, i secondi avvolti nel disvalore. Tratto distintivo in una parola che si fa fatica a pronunciare, che pure va detta: razzismo. Non un ritorno: non ci ha mai lasciato. Per un po’ se n’è rimasta acquattata; in attesa di tempi peggiori. Un fenomeno non recente, antico; affonda le sue radici nelle viscere d’Europa. Oggi sdoganato da un ipocrita giro di frase: “Non sono razzista, ma…”.
Non male per i detrattori del politically correct. Il neorazzista nega, anche di fronte all’evidenza, specie ciò che non rivela, ma, nonostante tutto, trapela: la sua attitudine alla discriminazione. Sul punto occorre chiarezza; gli studi di genetica evidenziano come siano state alcune ondate di immigrati a introdurre, in Europa, i geni della pelle chiara poi diffusi, nel mondo nuovo, dopo il 1492. Provenienti dall’Africa. Molti anni fa. Un’unica “razza”, quella umana. Ovvero nessuna, come nell’articolo 3 della Costituzione, che la cita, per negarla.
Il gong planetario lo ha suonato The Donald – bianco biondo ricco armato – con seguito di epigoni, variamente assortiti, per quanto diversamente provveduti. Il villaggio globale, sino ai ballatoi social, ammorbato dal riaffacciarsi di ciò che pudore, ritegno, una soglia minima di decoro sembravano aver, per quanto provvisoriamente, contenuto. Ed ecco esondare lo spirito reazionario, la vandea, la revanche, tra sciovinismi, suprematismi, sovranismi. I nuovi filistei. I nuovi farisei. Gli Usa, ancora una volta, paradigmatici. A parte i nativi americani, sterminati o ridotti nelle riserve, un melting pot tra padri pellegrini, spiriti avventurosi, gente in fuga o in cerca di fortuna. All’inizio del Novecento gli abitanti del Nord America sono passati da 7 a 80 milioni. Da fine Ottocento vi sono approdate decine di milioni di persone dalle zone più povere d’Europa; solo dall’Italia almeno 9 milioni. Uno straordinario travaso demografico.
Attratti da quella nazione che, dal 1776, con la Dichiarazione di indipendenza, aveva tagliato per prima il traguardo democratico. Almeno sul piano dei principi. Non senza significative deroghe su quello dei fatti. I pellerossa. Le donne (verso un suffragio universale conseguito molto più tardi). I neri. Circa un sesto della popolazione nei primi tredici Stati. In quelli del Sud, il 60%. Solo, in condizione di cattività (12 anni schiavo di Steve McQueen, tra gli autori più interessanti della sua generazione, ne ha offerto una lucida e disinibita rappresentazione). Schiavitù abolita al Nord tra il 1774 e il 1804. Nacque così il contrasto, che andò radicalizzandosi a metà dell’Ottocento. Propiziato da romanzi come La capanna dello zio Tom di Harriett Beecher Stowe e da figure come il mitico John Brown. Sino alle presidenziali vinte, nel 1861, da Abraham Lincoln. Undici Stati del Sud a favore della secessione dall’Unione.
La guerra civile; dalla primavera del 1861 a quella del 1865; tra unionisti e confederati. Una carneficina conclusa quando il generale Robert Edward Lee, capo dei sudisti, si arrende al generale nordista Ulysses Simpson Grant. Un tempo intere serie di telefilm amavano celebrare le imprese di giubbe blu e Rintintin. Oggi crescono gli epigoni dei confederati. Lincoln è anche all’inizio di un’altra vicenda: l’assassinio politico, di cui è vittima, per mano di un fanatico sudista, dopo essere stato rieletto presidente, con l’obiettivo di una riconciliazione nazionale basata sul riconoscimento dell’abolizione della schiavitù, estesa, nel 1865, all’intera Unione, in virtù del tredicesimo emendamento alla Costituzione.
Già dall’anno successivo comincia a diffondere sangue e terrore il Ku Klux Klan. Mentre va prevalendo, di fatto, la segregazione, la separazione tra bianchi e neri, in gran parte dei luoghi pubblici: scuole, teatri, mezzi di trasporto, giardini, chiese. C’è un filo di violenza che arriva sino a JFK, assassinato a Dallas il 22 novembre 1963; al fratello Bob, a Los Angeles, il 6 giugno 1968; a Martin Luther King, a Memphis, il 4 aprile 1968. All’indomani dell’anno – il 1962 – descrito da Green Book.
Non si tratta soltanto, come è stato scritto, della storia tra un bianco e un nero. Ma anche dell’incontro tra un afroamericano e un italoamericano. La versione in lingua originale restituisce il suggestivo intercalare in italiano: un tratto prezioso del film che il doppiaggio cancella. E non c’è solo il tema del colore della pelle. C’è il confronto tra due componenti che, partendo posizioni di subalternità sociale, vogliono credere nel mito della nuova frontiera, in forme diverse: da un lato con l’aspettativa di un fiero riscatto; dall’altro con un’atavica arte di arrangiarsi. Mostrando come da un’inimicizia, fondata sui pregiudizi, si possa passare a un’amicizia che cambia i cuori. Maschile e, al contempo, gentile. Non senza un rovesciamento che arricchisce la tematica servo-padrone.
Cultura, eleganza, educazione, sensibilità, rispetto delle regole: black. Ignoranza, goffaggine, grossolanità, brutalità, disinvoltura morale: white. Viggo Mortensen (Tony Lip), un’icona estetica del nostro tempo. Mahershala Ali (Don Shirley), reduce da Moonlight, senza un bianco, solo neri. Mortensen con la postura di chi sembra appena sceso da cavallo, un po’ John Wayne, un po’ Robert De Niro, sa risolvere ogni problema, con le mani più che con la testa. Alì emana un’aristocratica distanza, un’impenetrabile malinconia, un’estraneità a tutto ciò che è stupido, ignobile, malevolo. Il loro confronto, la sistole e la diastole grazie alle quali batte il cuore del film.
Il titolo, Green Book, è tratto dalla guida, mutuato dal cognome del suo inventore, tal Victor Hugo Green; pubblicata, sino alla metà degli anni Sessanta, con i ristoranti e gli hotel che accettavano i neri nel sud degli Stati Uniti. “For negro motorist” il sottotitolo; “for vacation without aggravation”. Punto di svolta il Civil Rights Act del 2 luglio del 1964, la legge voluta da JFK. L’idea di utilizzare la guida di Tony Lip, già buttafuori al Copacabana, pseudonimo di Frank Anthony Vallelonga, che accetta di far da autista per la tournée di Don Shirley, formatosi su Chopin, virtuoso pianista che suona in un trio ma rigorosamente su Steinway & Sons a coda. La sera in compagnia di una bottiglia di whisky. Mentre Tony prova a cimentarsi con impacciate lettere alla moglie Linda sulle quali riceve istruzioni, da Don Shirley, sino alla dettatura.
Siamo in pieno recupero della non poco frequentata, anzi piuttosto abusata poetica on the road. Ogni immagine come già vista, e, tuttavia, inedita. Atmosfera pop nel duplice senso, aderente ai sixties & popular. Sino alla luccicante Cadillac turchese e madreperlacea. In effetti l’auto ha un rilievo. Molto succede nell’abitacolo, durante il percorso. Dall’abbuffata con le mani, a brani, di KFC (Kentucky Fried Chicken, pollo fritto del Kentucky), alla discussione su Little Richard e Aretha Franklin, ai controlli notturni delle forze dell’ordine. Con un registro insieme leggero e serio, divertente e riflessivo, capace di toccare le corde della comicità e della commozione. Un merito del regista Peter Farrelly. Nel medium il messaggio, con qualche perla di saggezza che sfiora la banalità senza pienamente conseguirla: “Non vinci con la violenza – spiega Don Shirley a Tony Lip – vinci quando mantieni alta la tua dignità”. Alla fine, di fronte ai titoli di coda, ci si alza sollevati, confortati. Si può ancora sperare.
Nelle orecchie, il richiamo, insistito, di Don Shirley, a Tony Lip, guascone, fanfarone e sparaballe, in realtà, come si dice dalle mie parti, di piccaglio tenero: “Eyes on the road”: occhi sulla strada. Un suggerimento che potrebbe essere rivolto, in altro contesto, alla sinistra che ci è cara. Non parlare di te stessa. Non guardare a te stessa. Guarda alla strada. Guarda a dove vuoi andare.
Cinque le candidature all’Oscar: come miglior film; migliore attore protagonista a Viggo Mortensen; migliore attore non protagonista a Mahershala Ali; migliore sceneggiatura originale a Nick Vallelonga (figlio di Frank Anthony Vallelonga), Brian Currie e Peter Farrelly; migliore montaggio a Patrick J. Don Vito. Appuntamento al 24 febbraio, al Dolby Theatre di Los Angeles, tenendo d’occhio Roma di Cuaròn e La favorita di Yorgos Lanthimos.