(…) La letteratura gramsciana, che copiosa si è accumulata nel mondo, lavora per la dilatazione della nozione di egemonia recuperata come categoria suscettibile di molteplici impieghi e per questa sua adattabilità viene collocata alla base di una visione competitiva delle relazioni tra gli Stati, le economie, le culture. In Gramsci la nozione di dominio imperiale può essere maneggiata solo con doverose cautele nel campo delle relazioni tra Stati nelle quali tende ad escludere la possibilità di un illimitato comando militaristico. La supremazia o egemonia di uno Stato-potenza non è mai esaustiva nel nuovo ordine spaziale e occorre ricostruire le connessioni, i negoziati che stringono attorno al singolo paese che nella congiuntura si rivela prevalente una coalizione di forze. Ogni coalizione dominante secondo Gramsci deve tramutare l’influenza contingente in sistema stabilizzato. I rapporti di forza che vedono una posizione di prevalenza (“Stato egemone cioè una grande potenza”) mostrano che anche l’organismo statale più influente opera “con altre forze che concorrono in modo decisivo a formare un sistema e un equilibrio” (Q. p. 1629). Il sistema, inteso come costruzione di un equilibrio multipolare, sembra ridimensionare la effettualità di un impero come attribuzione di dominio ad una singola realtà nazionale e per questo Gramsci accenna a “infiniti elementi di equilibrio di un sistema politico-internazionale” (p. 1106). Lo Stato solo relativamente egemonico deve imporre le scelte di potenza in un contesto di equilibrio e in tal senso nell’ottica di un attore “il sistema deve essere stabilito in modo che, nonostante le fluttuazioni esterne, la propria linea non oscilli” (p. 1106). Il principio del rapporto di forza asimmetrico (“La linea di uno Stato egemonico, cioè di una grande potenza, non oscilla perché esso stesso determina la volontà altrui” (p. 1106) convive con la cornice di un equilibrio dinamico che traccia i contorni di un sistema che, finché dura nei suoi assetti di stabilizzazione, tende a mantenere compatibilità di gestione e a distribuire opportunità d’innovazione. (…)
L’individualità del singolo oggetto d’indagine o complesso storico-istituzionale va scandagliato con rigore e il volto funzionale di un caso va commisurato con le tendenze più generali senza mai compiere però gli errori di semplificazione che confondono tra loro esperienze incommensurabili, affogano processi specifici in pretesi modelli che andrebbero imitati passivamente. Preoccupato di una formulazione adeguata dei temi e delle condizioni per una spiegazione storico-empirica controllabile Gramsci censura una trascuratezza e dimenticanza nel cogliere le connessioni tra l’individualità di un processo e le tendenze più generali dell’epoca scrutata nei punti più avanzati. “In realtà ci ha finora interessato la storia europea e abbiamo chiamato «storia mondiale» quella europea con le sue dipendenze non europee. Perché la storia ci interessa per ragioni «politiche» non oggettive sia pure nel senso di scientifiche. Forse oggi questi interessi diventano più vasti con la filosofia della praxis, in quanto ci convinciamo che solo la conoscenza di tutto un processo storico ci può render conto del presente e dare una certa verosimiglianza che le nostre previsioni politiche siano concrete. Ma non è da illudersi neanche su questo argomento. Se in Russia c’è molto interesse per le quistioni orientali, questo interesse nasce dalla posizione geopolitica della Russia e non da influssi culturali più universali e scientifici” (Q. p. 1723). La comparazione non può essere circoscritta allo spazio europeo e uno sguardo globale è indispensabile canone esplicativo.
Non si comprende un singolo caso storico-politico senza inquadrarlo nel processo più ampio che coinvolge molteplici culture ed esperienze. Nella analisi di un caso di modernizzazione interrotta in uno spazio periferico Gramsci è consapevole che occorre concepire “la realtà italiana come inserita in un sistema internazionale, come dipendente da questo sistema internazionale”. L’intreccio tra sistema politico nazionale e relazioni internazionali è il punto rilevante di una ricognizione attenta alle dinamiche geopolitiche, alle innovazioni tecniche, alle parabole dell’economia e delle ideologie. Sul piano teorico Gramsci (Q. p. 964) si chiede: “I rapporti internazionali precedono o seguono i rapporti sociali fondamentali? Seguono indubbiamente. Ogni innovazione organica nella struttura modifica organicamente i rapporti assoluti e relativi nel campo internazionale attraverso le sue espressioni tecnico-militari. Anche la posizione geografica di uno Stato nazionale non precede ma segue le innovazioni strutturali, pur reagendo su di esse in una certa misura (nella misura appunto in cui le superstrutture reagiscono sulla struttura, la politica sull’economia). D’altronde i rapporti internazionali reagiscono passivamente e attivamente specialmente sui rapporti politici (di egemonia dei partiti). Quanto più la vita economica immediata di una nazione è subordinata ai rapporti internazionali, tanto più un determinato partito rappresenta questa situazione e la sfrutta per impedire il sopravvento dei partiti avversari”. Suggestioni feconde per una teoria neorealista delle relazioni internazionali sono state ricavate dalle indicazioni dei Quaderni. “Per Gramsci i cambiamenti fondamentali che si verificano nelle relazioni di potere internazionale o ordine del mondo, come risultano osservabili dalle variazioni nell’equilibrio militare-strategico e geopolitico, sono riconducibili ai mutamenti fondamentali dei rapporti sociali” (Cox, Gramsci, Hegemony and International Relations, in S. Gill, ed., Historical Materialism and International Relations, cit., p. 49). Come un singolo paese si inserisca nelle trame conflittuali del sistema economico mondiale è un tassello cruciale per la comprensione delle sue capacità competitive nell’economia e per la valutazione delle sue opportunità di consolidamento istituzionale. Scrutando la base produttiva del paese Gramsci (Q. p. 71) è colpito da un elemento di fragilità del capitalismo italiano: “scarsa occupazione delle donne nei lavori produttivi. Il rapporto tra popolazione «potenzialmente» attiva e quella passiva è uno dei più sfavorevoli”. Questo differenziale di carattere sessuale nella composizione delle forze produttive è un fattore di rigidità che impedisce una modernizzazione del sistema economico. Al fattore della diseguaglianza sessuale va aggiunta la differenziazione territoriale come ostacolo alla crescita.
Lo sviluppo competitivo asimmetrico vale come ipotesi ricostruttiva della modernizzazione italiana che nelle sue dinamiche antagonistiche tra spazi e classi sociali sfuggiva alle impostazioni positivistiche che celebravano un percorso di crescita senza scosse e tensione. I positivisti, incalza Gramsci (Q. p. 47), “non capivano che l’unità non era stata creata su una base di eguaglianza, ma come egemonia del Nord sul Sud nel rapporto territoriale città-campagna, cioè che il Nord era una «piovra» che si arricchiva alle spese del Sud, che l’incremento industriale era dipendente dall’impoverimento dell’agricoltura meridionale”. Anche nei rapporti tra centro e periferia, come si articolano nel sistema mondiale, valgono le stesse condizioni di dominio e subordinazione che si stringono tra i molteplici attori operanti nei territori nazionali. Gramsci assume la dimensione dello spazio politico organizzato come asse dell’analisi che esplora l’incastro tra dimensione nazionale e sviluppi pratici e teorici internazionali. “Già prima della guerra Rodolfo Kjellén, sociologo svedese, cercò di costruire su nuove basi una scienza dello Stato o Politica partendo dallo studio del territorio organizzato politicamente (sviluppo delle scienze geografiche: geografia fisica, geografia antropica, geopolitica) e della massa di uomini viventi in società in quel territorio (geopolitica e demopolitica)” (Q. p. 193). La geopolitica comporta non solo il riferimento allo spazio politicamente organizzato in Stato ma anche una attenzione alle dinamiche più ampie nello spazio mondiale. La stessa grande crisi del 1929, che Gramsci studia con accuratezza raccogliendo dati quantitativi, parabole dei bilanci e ricercando le diverse risposte maturate nei paesi colpiti dalla contrazione, mostra l’intreccio ineludibile di sistema e mondo, di particolare e generale. Sguardo comparato ai processi, e fuga da ogni propaganda o ideologia è l’atteggiamento suggerito dai Quaderni per governare le crisi sociali (…).
Nello studio attento di un caso particolare, Gramsci non adotta una visione acritica, intreccia le variabili, scandaglia il riferimento nazionale e l’europeo, il paese e il mondo, perlustra le singole politiche pubbliche e formula ipotesi sulle possibili uniformità da perseguire nel governo delle crisi. La penetrazione del caso singolo si accompagna a prove di comparazione, la ponderazione di dati empirici accumulati con grande curiosità si apre a confronti con altre esperienze alla ricerca di controlli significativi a sostegno di tentativi di esplicazione dei processi. E’ dalla generalizzazione teorica che Gramsci ricava linee di tendenze di un tempo storico ed è dalla esplorazione del caso particolare che trova materiale storico-empirico sulle dinamiche dei partiti, della forma di governo, della società civile. Gramsci intrattiene un confronto serrato con gli specialismi dell’epoca, assume come pietre di paragone gli elitisti, che forniscono le categorie del potere, Sorel (che lo conduce sul piano dei miti politici) e Weber (che segue sul terreno dell’indagine sociale). Non mancano, anche nell’indagine di un caso speciale come quello italiano, apporti di teorie e modelli classici. La sua attenzione cade su alcuni spunti di indagine presenti in Weber. E richiama (Q. p. 1809) una essenziale ipotesi analitica del sociologo tedesco: “opinione di Max Weber, per esempio, che una gran parte delle difficoltà attraversate dallo Stato tedesco nel dopoguerra sono dovute all’assenza di una tradizione politico-parlamentare e di vita di partito prima del 1914”. Una crisi rinvia a processi genetici dell’impianto politico-statale, della struttura politico-rappresentativa. Lo schema che Gramsci adopera per l’inquadramento della crisi della modernizzazione in Italia punta sulla fragilità dello Stato dinanzi alla cesura storica della guerra che nei paesi a più debole radicamento dei partiti e di minore consolidamento delle istituzioni di rappresentanza conduce alla erosione del sistema. Un altro momento della sociologia weberiana attira l’attenzione di Gramsci (Q. p. 1932): “(nel libro Parlamento e governo nel nuovo ordinamento della Germania di Max Weber si possono trovare molti elementi per vedere come il monopolio politico dei nobili abbia impedito l’elaborazione di un personale politico borghese vasto e sperimentato e sia alla base delle continue crisi parlamentari e della disgregazione dei partiti liberali e democratici; quindi l’importanza del Centro Cattolico e della Socialdemocrazia, che nel periodo imperiale riuscirono a elaborare un proprio strato parlamentare e direttivo abbastanza notevole”. Nel caso italiano di caduta del potere il fallimento dei cattolici e del movimento socialista approfondisce la destrutturazione del quadro politico e sociale per la debolezza degli attori liberali nel governare una fase di accelerata mobilitazione collettiva con le risorse di un consolidamento democratico delle istituzioni. “La situazione del dopoguerra, in cui tali elementi si presentavano moltiplicati, perché, dopo quattro anni di guerra, decine di migliaia di uomini erano diventati moralmente e socialmente «vagabondi», disancorati, avidi di sensazioni non più imposte dalla disciplina statale, ma liberamente, volontariamente scelte a se stessi” (Q. 1201). Nei Quaderni viene raccolto il senso biopolitico della guerra che scatena pulsioni primordiali in un contesto di caduta del potere disciplinare dello Stato. “Dopo quattro anni di guerra, decine di migliaia di uomini erano diventati moralmente e socialmente «vagabondi», disancorati, avidi di sensazioni non più imposte dalla disciplina statale, ma liberamente, volontariamente scelte a se stessi” (Q. 1201). Da passioni prive di regola scaturì il trascinamento carismatico accolto come veicolo di senso.
La guerra opera nello schema gramsciano come la grande frattura epocale che deconsolida le istituzioni e destruttura i paradigmi tradizionali della politica alle prese con la dissoluzione dei consueti strati sociali. La crisi sociale a più dimensioni, negli anelli più deboli politicamente del liberalismo, rompe gli equilibri di potere e, nel vuoto di soggetti organizzati, vince la sfida per il potere il capo carismatico che aggrega un partito armato con il quale occupa lo Stato imponendo restrizioni nelle forme del governo. Gramsci non cataloga i regimi autoritari del ‘900 sotto la formula dell’assolutismo tradizionale: “tra il vecchio assolutismo rovesciato dai regimi costituzionali e il nuovo assolutismo c’è differenza essenziale, per cui non si può parlare di un regresso” (Q. p. 1743). La differenza qualitativa risiede nell’avvento di strutture di partito che svolgono funzioni di polizia nella società. Anche nella strada corporativa, intrapresa come segno di una volontà di integrazione, Gramsci non riscontra un puro recupero della tradizione medievale e non la interpreta come “un ritorno al «corporativismo», nel senso «antico regime», ma nel senso moderno della parola, quando la «corporazione» non può avere limiti chiusi ed esclusivisti, come era nel passato; oggi è corporativismo di «funzione sociale»” (Q. p. 1743). La difficoltà di gestire la crisi di partecipazione (suffragio universale, partiti di massa) e la crisi di secolarizzazione (dall’astensionismo elettorale alla formazione di un partito autonomo dei cattolici) getta scompiglio nell’ordinamento liberale alle prese con una ribollente società di massa e con un nuovo profilo del capitalismo. A questa carenza cronica delle classi dirigenti si aggiunge la portata dirompente assunta dalla crisi di differenziazione territoriale che fa affiorare le crepe mai ricomposte dell’edificio statale. La crisi ebbe un andamento catastrofico anche perché “non era incarnata nel popolo italiano nessuna tradizione di partito politico di massa, non esistevano cioè «direttive» storico-politiche di massa orientatrici delle passioni popolari, tradizionalmente forti e dominanti” (Q. p. 1228). Si cumulano tensioni multiformi che sommandosi disordinatamente in un breve arco temporale sfaldano la capacità di resistenza del sistema.
Nella sua analisi dei processi politici e sociali degli anni Venti, quando “la classe politica si disintegra e non riesce a trovare un terreno solido di organizzazione” (Q. p. 972), Gramsci ritiene di aver acciuffato una regolarità nella affermazione della dimensione carismatica nell’agire politico di massa. Quando il regime di massa con le sue convulsioni nei comportamenti collettivi affiora con velocità estrema (“standardizzazione, comunicazioni, giornali, grandi città”, p. 1058) e il regime dei partiti è composto da notabili incapaci di gareggiare con formazioni antisistema, le istituzioni dell’ordine politico non hanno la capacità di adattamento e di integrazione e per questo franano d’un colpo e il terreno scivoloso vede la marcia del capo carismatico. Non si tratta del tradizionale partito come “raggruppamento intorno a certe personalità” e sprovvisto di cemento programmatico, ma di una forma di inquadramento di massa attorno alla fede in un capo depositario di autorità e veicolo di senso. Così Gramsci ricostruisce la formazione dei partiti carismatici: “in certi momenti di «anarchia permanente» dovuta all’equilibrio statico delle forze in lotta, un uomo rappresenta 1’«ordine» cioè la rottura con mezzi eccezionali dell’equilibrio mortale e intorno a lui si raggruppano gli «spauriti», le « pecore idrofobe » della piccola borghesia:, ma solo una crisi dovuta al troppo numero di malcontenti, difficili da domare per la loro mera quantità e per la simultanea ma meccanicamente simultanea manifestazione del malcontento su tutta l’area della nazione)” (Q. p. 234). Il capo carismatico distruttivo è quello che al potere non svolge “un’opera «costituente» costruttiva” ma utilizza gli strumenti della comunicazione deteriore per imporre un disegno di passivizzazione delle masse e per guidare un regressivo percorso di deviazione semantica rispetto alle vere condizioni dell’agire sociale. Si tratta, avverte Gramsci, della comparsa di “ciò che il Michels ha chiamato capo carismatico, cioè di un leader che, in vista di un regime plebiscitario, elimina la pluralità delle posizioni, sacrifica i gruppi dirigenti autorevoli per ambizioni di potenza personale sorrette dall’oratoria manipolatoria, dalla coreografia ingannevole per <<entrare in rapporto con le masse direttamente” (Q. p. 772). Il gesto, la esaltazione mistica per le virtù del condottiero rientrano nella parvenza di soluzione carismatico-teatrale alla crisi di rappresentanza. “Nel mondo moderno solo un’azione storico-politica immediata e imminente, caratterizzata dalla necessità di un procedimento rapido e fulmineo può incarnarsi miticamente in un individuo concreto: la rapidità non può essere resa necessaria che da un grande pericolo imminente, grande pericolo che appunto crea fulmineamente l’arroventarsi delle passioni e del fanatismo, annichilendo il senso critico e la corrosività ironica che possono distruggete il carattere «carismatico» del condottiero” (Q. p. 1558).
La complessità della politica, la densità dell’organizzazione, l’ampiezza della macchina della burocrazia, la moltiplicazione delle funzioni amministrative di gestione pubblica, la dinamicità della società civile articolata, secondo Gramsci, non sono governabili con la semplificazione demagogica di un capo. Non c’è grande politico senza la capacità di gestione burocratica e “amministrare significa prendere gli atti e le operazioni fino a quelle molecolari (e più complesse, si capisce) necessarie per realizzare il piano” (Q. p. 1050). Appurato che nel tempo nuovo il ruolo delle masse è ineliminabile (“le masse sono il necessario protagonista storico”), il compito del movimento operaio per Gramsci è quello di esprimere una leadership forte ma che agisce con un’altra cultura, cioè con il riconoscimento del carattere funzionale del capo rispetto a un progetto che si prefigge di “aiutare le masse a elevarsi attraverso l’elevarsi di singoli individui e di interi strati culturali” (Q. p. 772). Il capo viene riconosciuto e svolge una funzione costruttiva se promuove classi dirigenti conservando il linguaggio della verità (gli stessi sacrifici immediati possono essere delle “necessità inderogabili di un grande Stato moderno”, Q. p. 1176). Nell’opera di Gramsci la scienza politica obiettiva non esclude l’adozione di un punto di vista soggettivo. Egli intende coniugare, alla maniera classica, essere (sondare “la ‘natura’ del diritto secondo una nuova concezione dello Stato, realistica e positiva” Q. p. 972) e momento del dover essere (“ossia del fine di creare un nuovo livello di civiltà”). Lo stesso Mosca per lui coniuga “una posizione ‘obbiettiva’ e disinteressata di scienziato e una posizione appassionata di immediato uomo di parte che vede svolgersi avvenimenti che lo angustiano e ai quali vuole reagire” (Q. p. 972). Realismo e progetto non si escludono. Nel modello di scienza che Gramsci persegue la indagine realistica non preclude la ipotesi di una grande trasformazione. Occorre però registrare un mutamento epocale che vede il primato dell’egemonia, dello scontro politico per il consenso. Gramsci assume l’ottobre come una cesura storica ma pensa ad un altro sistema teorico. L’ottobre rientra nella vecchia idea di un’accelerazione volontaristica e militare per la conquista del potere (“L’ultimo fatto di tal genere sono stati avvenimenti del 1917. Essi hanno segnato una svolta decisiva nella storia dell’arte e della scienza della politica” Q. p. 860). Si tratta di una vittoria irripetibile, di una tecnica di conquista del potere che non trova alcuna efficacia nella complessità dei paesi occidentali. Secondo Gramsci la guerra di posizione va oltre Lenin perché è una strategia incentrata sul consenso e sui tempi lunghi in quanto nella società complessa “le cose non si svolgono fulmineamente e con marcia progressiva definitiva come si aspetterebbero gli strateghi del cadornismo politico” (ivi). Sarebbe una prova di radicale incomprensione dei principi della scienza politica progettare “un furibondo attacco di artiglieria contro le trincee avversarie”, trascurando che la prova di forza di “truppe assalitrici” che “fulmineamente” confidano di risolvere il conflitto in tempi ristrettissimi nell’illusione di “aver distrutto tutto” il sistema della difesa con una spallata alla superficie è destinata al fallimento dinanzi alla capacità di resistenza dell’avversario.
*estratto dalla relazione al convegno “Egemonia. A ottant’anni dalla morte di Gramsci” promosso da Sinistra Italiana, 27 aprile 2017 Roma