Sono passati 25 anni. A me sembra ieri.
Per due motivi, uno bello e uno brutto. Quello bello è che la sua memoria è viva, sono pochi in Italia quelli che non lo conoscono e che non lo associano a un’idea alta di integrità morale, di professionalità, di acume e di servizio alle istituzioni democratiche. Quello brutto è che mi sembra che siamo però – ciclicamente – allo stesso punto. Garantisti contro giustizialisti (in un binomio infingardo e strumentale); l’antimafia genuina delle cose contro l’antimafia gridata dei professionisti (anche qui strumentalizzando una polemica – di suo un poco incauta – di Leonardo Sciascia); e molti che parlano di mafie senza conoscerle. Di quel pomeriggio di maggio 1992 ricordo il volto di Angela Buttiglione al TG1 che tentava di dare un contegno al dolore suo e di tutti noi a un annuncio tanto atteso e temuto quanto da troppi rimosso. Il cartellone autostradale dello svincolo di Capaci resterà impresso nelle memoria degli italiani per sempre, da quella serata sulle TV.
Falcone era siciliano. Questo dice già molto. Quella terra aveva e ha le forze e l’intelligenza per sconfiggere la mafia e da allora molti passi avanti ha fatto per conseguire quel risultato. Non è un caso che Riina abbia voluto ammazzarlo in Sicilia e non a Roma, dove faceva il direttore generale degli affari penali.
Falcone era ironico. Diceva sempre che non sarebbe morto di cancro al polmone per il suo tabagismo; e la sera quando se ne andava a casa, invitava i colleghi impegnati con lui a togliere il disturbo allo Stato.
Falcone era determinato. Si era messo in testa che quelle persone erano e sono il cancro di un paese, sono una metastasi ributtante che un popolo non si merita. E’ per questo che – tesaurizzando quel che aveva imparato da Rocco Chinnici, assassinato nel 1983 a via Pipitone Federico – istruì con pazienza e tenacia il maxi-processo del 1986, che per la prima volta nella storia d’Italia fu celebrato per associazione mafiosa e non per singoli reatucoli, che puntualmente finivano in assoluzioni per insufficienza di prove. Falcone dimostrò in quel processo che i morti ammazzati dalla mafia non erano gli amanti uccisi per vendetta dai mariti cornuti; non erano le puttanelle sboccate che non portavano rispetto; e non erano gli eroi solitari che non sanno stare al mondo e che cercano pubblicità. Egli portò alla sbarra centinaia di persone che facevano sistema: corruzione, abusivismo edilizio, estorsioni, traffico di droga. E che usavano strumenti noti a tutti: violenza, intimidazione, omertà.
Falcone però restò solo.
In molti portano la responsabilità di quella solitudine, come ha dimostrato ancora una volta Giovanni Bianconi nel suo recentissimo e documentato libro L’assedio, per i tipi Einaudi 2017. Nel 1989, dopo la fine del maxi- processo, che aveva inflitto ai mafiosi una grandinata di ergastoli e centinaia di anni di galera, gli fecero un attentato all’Addaura, che fortunatamente fallì. Vi fu addirittura chi disse che se l’era fatto da solo per assurgere a martire. La magistratura italiana, che aveva da un ventennio riguadagnato – sulla base delle garanzie costituzionali – autorevolezza e indipendenza, sia nell’esercizio delle sue funzioni sia nella libera espressione dei singoli magistrati – in quel caso ne fece un pessimo uso. Soprattutto le correnti dell’Associazione nazionale magistrati alzarono una selva di pretesti per negargli l’accesso ai vertici degli uffici giudiziari di Palermo e poi alla procura nazionale antimafia.
Non si avvidero – troppi magistrati, ma non Giancarlo Caselli (che al CSM votò per lui) – che stavano facendo il gioco di quella politica che faceva, con la forza dell’inerzia e della rendita, il tifo per la mafia. Non si avvidero – troppi politici, ma non Gerardo Chiaromonte, l’autorevole presidente della Commissione d’inchiesta sulla mafia – che sottolineando il preteso protagonismo di Falcone, stavano stringendo un’alleanza di fatto con chi lo voleva morto. Ai nemici di sempre nell’allora maggioranza pentapartita, si aggiunse purtroppo una parte della sinistra, cui faceva velo che il ministro in carica era un odiato esponente del PSI. La storia si incaricò poi di dirci che – sì – quel partito era pieno di marciume e che in qualche tratto arrivò persino ad armare su Falcone un gioco non limpido: ma Claudio Martelli quella battaglia la stava facendo giusta.
Insomma, in pochi trassero insegnamento dall’avvertimento di Tomasi di Lampedusa, che nel Gattopardo dice che “in nessun luogo quanto in Sicilia la verità ha vita breve: il fatto è avvenuto da cinque minuti e di già il suo nocciolo genuino è scomparso, camuffato, abbellito, sfigurato, oppresso, annientato dalla fantasia e dagli interessi; il pudore, la paura, la generosità, il malanimo, l’opportunismo e la carità: tutte le passioni, tanto le buone quanto le cattive, precipitano sul fatto e lo fanno a brani. E la verità scompare”.
Invece, quando il 30 gennaio 1992 la Cassazione annullò la sentenza mite della corte d’assise d’appello (che, a sua volta, aveva derubricato molte accuse ritenute fondate in primo grado) e consacrò nella “cosa giudicata” l’impianto di Falcone sul carattere unitario e verticistico di Cosa nostra, quella verità sui mafiosi della provincia di Palermo, da Corleone a San Giuseppe Jato, da Ciaculli ai mandamenti cittadini, riemerse. E Riina si vendicò. Il lascito di Falcone (e poi quello di Paolo Borsellino) non sono svaniti.
Abbiamo una legislazione di contrasto – migliorabile, certo e sempre – avanzatissima, abbiamo oggi molti magistrati e componenti delle forze dell’ordine professionali, dediti e robustamente onesti. Abbiamo esperienza e sensibilità. Abbiamo costruito un bastione giurisprudenziale enorme, che ci serve per combattere anche camorre, ‘ndrangheta (in Calabria e fuori) e Mafia capitale. E abbiamo un movimento antimafia che nonostante tutto fa ancora camminare quei valori su altre gambe.