Enrico IV a Roma: il teatro che resiste, “l’unica speranza contro la peste”

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La Lombardia è in gabbia e anche noi non ci sentiamo liberi. L’unica certezza in questa faccenda del virus è che medici e operatori sanitari stanno facendo i salti mortali, lavorando  ben oltre l’orario dovuto. Anche ad informarci laddove sia loro richiesto o concesso. Il resto è confusione, probabilmente incolpevole, ma niente aiuta a fare chiarezza.

Le scuole chiudono, le palestre no. Almeno fino a ieri. E anche i parchi giochi per i più piccoli, con tanto di scivoli, altalene e attrezzi vari non erano stati interdetti. Meno che mai i centri commerciali, i mercati e i supermercati. Anche se l’ordinanza più recente, successiva al decreto della presidenza del consiglio datato 4 marzo, sembra disporre una restrizione di orario.

I teatri invece sono chiusi, con grande perdita per un settore già penalizzato e fragile di suo. Di artisti in stand by non si parla o si parla molto poco, né di loro né dell’indotto perché il teatro e quel che ruota attorno ad esso non è, notoriamente, un bene necessario.

Nel merito, il suddetto decreto sospende fino al 3 aprile, in tutto il Paese, cinema, teatro e qualsiasi genere di spettacolo e manifestazione comporti un “affollamento di persone tale da non consentire il rispetto della distanza di sicurezza interpersonale di almeno un metro”.

Tant’è. Se queste sono le direttive, se le direttive arrivano dall’Oms  e dalle sue emanazioni locali, medici, virologi, comitati scientifici, tocca adattarsi senza isterie, che non son collettive ma hanno anch’esse i loro bei focolai, su cui sarebbe il caso di gettare acqua pulita.

Accogliamo la necessità senza lasciarci schiacciare. Il più grande atto di libertà è l’amor fati, diceva Nietzsche, chiamato in causa per rincuorare i rassegnati con grazia. Ecco, sembra essere questa la migliore risposta che molti artisti affidano alla rete, tra una virtuale pacca sulla spalla e un grido di dolore, un’impennata d’ira e un sonetto di Shakespeare, ricordando che il Bardo i Sonetti li scrisse in cattività, quando a Londra era scoppiata la peste.

E come sempre qualcuno ci riesce, qualcuno ci prova, qualcuno getta la spugna perché resistere ha un costo insostenibile.

Garantire la distanza di sicurezza dei posti a sedere infatti significa alla meglio accesso dimezzato di pubblico, con conseguenze che non tutti sono in grado di reggere. E conti alla mano si decide di chiudere. Se il rapporto tra spese di gestione e rientro non è almeno uguale a zero, chi volete che possa resistere. E allora si sceglie il male minore. Si chiudono i battenti. Si chiude il teatro. Che tristezza pensare che un teatro chiuso sia un male minore.

Però succede anche che in mezzo a tanti mali minori qualcuno abbia cercato di galleggiare, remando contro corrente senza lasciarsi travolgere.

A Roma c’è un teatro che ci ha provato, uno spazio piccolo e pieno di fascino, con la platea  discendente e il palcoscenico che pare una grotta. E’ l’ipogeo della Scala Santa in Laterano e ora si chiama TeatroBasilica, tutto attaccato. Ora, perché prima era conosciuto come Sala Uno. Lo gestiscono da un anno l’attrice Daniela Giovanetti, il regista Alessandro Di Murro, il collettivo Gruppo della Creta e un team di artisti e tecnici, con la collaborazione di Antonio Calenda. “Un noi – si legge nel sito – fatto da generazioni ed esperienze diverse, che mira a creare una comunità di persone prima e di pensieri e intenti poi… Un luogo dove l’attualità teatrale possa esplodere mostrando la sua struttura primaria”.

E un po’ più avanti, ironia della sorte, si legge che “questa formula alchemica potrà anche fallire ma è l’unica speranza contro la peste che ci governa quotidianamente”.

La peste. La peste contro la quale il virus del teatro si è incaponito, com’è successo l’altra sera, il 5 marzo, primo giorno di attuazione del suddetto decreto.

Un posto sì e uno no, fatta salva la distanza di sicurezza, non abbiamo perso uno spettacolo imperdibile, in scena fino a domenica 8 marzo. L’Enrico IV di Pirandello, con un Roberto Herlitzska da brividi, molto ben accompagnato da un solidissimo cast composto da Daniela Giovanetti, Armando De Ceccon, Sergio Mancinelli, Giorgia Battistoni, Lorenzo Guadalupi, Alessio Esposito, Stefano Bramini, Lorenzo Garufo, Dino Lopardo.

La regia è di Antonio Calenda, già regista di un celebre Enrico IV con Giorgio Albertazzi, che definisce questo testo “un trattato purissimo di filosofia sciolto in forma drammatica, in grado di raccontare, meglio e più di altri testi, la follia di un mondo deragliato, il nostro, in cui regna la pura legge del caos”.

Per questo si libera dai riferimenti filologici agli anni Venti e ambienta la vicenda in un tempo presente, a teatro, dove una compagnia di attori sta scegliendo costumi e calzari (Laura Giannisi) per l’imminente messa in scena, come indicano i due stand ai lati del palcoscenico, e discute su quale Enrico IV devono andare a recitare, se di Shakespeare o di Pirandello.

Il metateatro. Pirandello. Il legame intestino tra  finzione e verità.

Questa versione è anche una messa in scena del metateatro, del nostro logorroico e a volte vuoto blaterare di teatro, del nostro travestirci a vista nell’illusione di risultare credibili. Veri buffoni convinti di fare i buffoni per finta, per guarire chi in verità guarito lo è già, o non è mai stato malato, almeno non più di noi.

La vicenda del nobile che impazzisce a seguito di una caduta da cavallo (con dolo) e si crede il personaggio da cui era mascherato, si offre all’istrionismo su un piatto d’argento e stuzzica l’ego di qualunque interprete.

Non ci casca Herlitzska, che è uno degli attori più onesti e sapienti del nostro teatro, e si mantiene sul  filo sottilissimo che divide verità e finzione, coscienza e follia. E su quello stesso filo, teso come una corda per l’intero spettacolo, mantiene anche il pubblico. In equilibrio come un consumato funambolo, che ben si regge sul suo bastone, claudicante eppure incrollabile, Enrico conosce bene l’arte maieutica, sorta di Socrate che si smaschera per smascherare, disincanta, bacchetta e purtroppo ferisce. Non senza ironia e qualche sprazzo di umorismo, perfettamente dosato, in modo che arrivi forte e preciso.

Così come l’idea che serpeggia in tutto il testo e che si condensa così: “Conviene a tutti far credere pazzi certuni, per avere la scusa di tenerli chiusi. E sai perché? Perché non si resiste a sentirli parlare”.

Giusta e calibrata Daniela Giovanetti nel ruolo di Matilde Spina, la donna di cui è innamorato, incisiva anche nei compassionevoli silenzi e comunque bravi e adeguati tutti gli interpreti. Armando De Ceccon nel ruolo del barone Belcredi, suo rivale in amore, Sergio Mancinelli, il medico,  ovvero colui che ha parato a festa la marchesa e tutti quanti pensando di farlo guarire (“Siete voi che avete parato così la marchesa?”), Giorgia Battistoni nel ruolo di Frida, figlia e doppio della marchesa.

 

Alessandra Bernocco

Giornalista, laureata in filosofia, ama scrivere e cucinare. Da sempre appassionata di teatro, ha insegnato storia del teatro e collaborato come critico a vari periodici tra cui Europa, L’Unità.tv, Multiversi, Dramma e Oltrecultura. Ha pubblicato Suite Bohémien (Robin) e Bip. Il rumore del tempo sospeso (Dialoghi) Si sfoga sul suo blog, Verba manent.