Proseguendo la traiettoria percorsa dal suo primo libro, Thomas Piketty (il più famoso accademico a ribaltare il paradigma neoliberista nelle scienze economiche, studiando le disuguaglianze nel mondo e di fatto il capofila di una sempre più nutrita schiera di economisti che si preoccupano non solo della creazione ma anche della distribuzione della ricchezza), ci ha regalato un ulteriore volume, un ulteriore passo per un mondo meno diseguale, meno iniquo e sicuramente più stabile e sicuro. La partenza: «Ogni società, ogni regime basato sulla disuguaglianza, si caratterizza per un insieme di risposte, più o meno coerenti e stabili, al problema del regime politico e al problema del regime della proprietà […] Per semplificare, si può dire che ogni ideologia e ogni regime basato sulla disuguaglianza, si fonda su una teoria dei confini e su una teoria della proprietà» (p. 17). Il capitalismo naturalmente accumula ricchezze e produce disuguaglianze; si può intervenire solo agendo su persone di un determinato territorio, proprio nell’accrescersi delle ricchezze.
Il centro, come nella sua prima opera, sono i dati storici che dimostrano con assoluta evidenza il meccanismo che produce gli squilibri economici; si allarga, però, l’orizzonte geografico, uscendo dalla visuale eurocentrica. Non si intende raccontare il contenuto del libro, ma rilanciare con forza la conseguenza più importante delle analisi che contiene: «La disuguaglianza non è economica o tecnologica: è ideologica e politica» (p.20); è il sistema politico (da cui derivano altri pilastri della nostra convivenza: il fisco, l’istruzione, la sanità…) a plasmare i meccanismi di fondo che regolano (o fanno impazzire) l’economia di oggi, della quale, ricordiamo, papa Francesco dice: «Questa economia uccide» (EG 53). Ne deriva che «le attuali disuguaglianze e le istituzioni odierne non sono le sole possibili, contrariamente a quello che possono pensare i conservatori: anch’esse saranno chiamate a trasformarsi e a reinventarsi continuamente» (p. 21). Esistono, quindi, sempre alternative, che la storia stessa dell’umanità può suggerire. Questo libro diventa la tavolozza di colori che può aiutarci a disegnare un nuovo futuro, a partire dalle lezioni che sempre il passato ci lascia. Abbiamo, allora, l’invito a pensare diversamente rispetto al pensiero unico e dominante che getta nella mancanza di speranza.
Il libro, quindi, è non solo un testo di analisi economica, ma un manifesto politico e un invito alla democrazia, cioè alla capacità di mettere a frutto la più ampia discussione pubblica, per studiare i problemi in atto e discutere le differenti alternative sul tavolo.
La parola giustizia è la pietra d’angolo per l’edificio dell’attesa umanità; il libro non intende proporre teorie sulla giustizia, ma con spirito pratico offre una definizione di società giusta, che sarà perfezionata dalla discussione pubblica: «Una società giusta è quella che consente a tutti i suoi membri di avere l’accesso più ampio possibile ai beni di base: l’istruzione, la salute, il diritto di voto e, più in generale, la più completa partecipazione alle varie forme della vita sociale, culturale, economica, civile e politica. La società giusta organizza i rapporti socioeconomici, la proprietà e la distribuzione dei redditi e dei patrimoni, allo scopo di permettere ai membri meno privilegiati di beneficiare delle migliori condizioni di vita possibili. Una società giusta non implica uniformità o uguaglianza assoluta. La disuguaglianza dei redditi e dei patrimoni in una società può essere giusta, nella misura in cui è il risultato di aspirazioni diverse e di distinte scelte esistenziali, e se permette al contempo di migliorare le condizioni di vita e di aumentare le opportunità dei soggetti più svantaggiati. Ma tale condizione deve essere dimostrata e non solo presunta, ed è un argomento che comunque non può essere impiegato per giustificare qualunque livello di disuguaglianza, come si fa anche troppo spesso» (p. 1093).
Qui interviene la deliberazione collettiva, «sulla base delle esperienze storiche e individuali di cui disponiamo e con la partecipazione di tutti i soggetti sociali […] Il processo decisionale è, al tempo stesso, un fine e un mezzo […] Il problema di dove arrivino i beni fondamentali (istruzione, sanità, alloggio, cultura, ecc.) fa, chiaramente, parte del dibattito e non può essere risolto al di fuori della società e del contesto storico specifici» (p. 1093). L’autore chiama la sua proposta socialismo partecipativo: la traiettoria per cambiare il mondo, che nasce dalla storia riletta anche nei suoi fallimenti, è frutto dell’occuparsi del sociale e della giustizia e del farlo insieme, in modo democratico, affinché ognuno offra il proprio contributo verso una giustizia frutto di una deliberazione collettiva continua[1].
Il socialismo partecipativo si attua superando il capitalismo e la proprietà privata «da un lato istituendo una vera proprietà sociale del capitale grazie a una maggiore condivisione del potere nelle imprese, e dall’altro istituendo un principio di proprietà temporanea del capitale, per mezzo di un’imposta fortemente progressiva sui grandi patrimoni, che permetta di finanziare una dotazione universale di capitale e la circolazione permanente della proprietà» (p. 1098).
Per condividere il potere nelle imprese si deve considerare tutto ciò che viene prodotto come valore da condividere tra tutti i portatori di interesse. La cogestione, nuove dinamiche di voto per le decisioni aziendali, la proprietà diffusa sono piste percorribili, che vanno valutate insieme per predisporre un pacchetto condiviso e sostenibile, affinché tutta la comunità possa godere della vita delle imprese e il bene comune si accresca via via[2].
Occorre poi pensare all’imposta progressiva sulla proprietà e la circolazione del capitale: «per impedire che si ristabilisca una concentrazione eccessiva di ricchezza, le imposte progressive sulle successioni e sul reddito dovranno continuare anche in futuro a svolgere il ruolo che hanno avuto per decenni nel XX secolo, quando al vertice del modello distributivo della ricchezza e del reddito si applicavano tassi del 70-90% o anche superiori. E oggi siamo in grado di dire che quei decenni furono il periodo caratterizzato dalla più forte crescita mai registrata. Al tempo stesso, l’esperienza storica indica che queste due tasse non sono sufficienti e che devono essere integrate da un’imposta progressiva annuale sui patrimoni, che dovrebbe rappresentare lo strumento fondamentale per garantire una reale circolazione del capitale» (p. 1103). Occorre, infatti, avere attenzione ai patrimoni perché sono più facili da individuare, l’aspettativa di vita sta crescendo e la successione ereditaria spesso è rimandata di molti anni. Questo per consegnare ai giovani una dotazione di capitale minima per realizzare progetti di vita e per impedire accumuli eccessivi di ricchezza. Il libro indica delle cifre per le diverse tassazioni; ma «esse hanno un valore puramente illustrativo. La scelta esatta dei parametri richiederebbe una discussione approfondita e un’ampia deliberazione democratica che non sono di competenza di questo studio» (p. 1110). Il socialismo partecipativo, dunque, si basa sulla proprietà sociale e la condivisione dei diritti di voto nelle imprese e sulla proprietà temporanea e la circolazione del capitale. Così si potrà superare il capitalismo privato, cioè che accumula per sé per privare altri, seguendo gli ideologi del conservatorismo e del proprietarismo, esplosi in numero ed influenza dagli anni ‘80, cui si sono poi associati i sostenitori delle istanze nazionaliste e gli avversari della libera mobilità delle persone. Tanto dovrebbe fare l’Europa, ma anche i singoli Stati possono iniziare (cfr. p. 1124), inserendo nelle loro Costituzioni[3] «un principio minimo di giustizia fiscale basato sul concetto di non regressività», impedendo cioè che i ricchi paghino una aliquota complessiva inferiore ai meno abbienti[4].
Questo nuovo modello di regime fiscale potrebbe finanziare alcune proposte necessarie per la vita democratica: innanzitutto il reddito di base, «equivalente al 60% del reddito medio al netto delle imposte, il cui importo dovrebbe diminuire con l’aumento eventuale del reddito dei soggetti interessati: la misura riguarderebbe il 30% della popolazione con un costo totale pari a circa il 5% delle entrate nazionali» (p. 1132), poi l’istruzione di qualità per tutti per consentire ad ogni cittadino di accedere al lavoro desiderato con adeguata retribuzione. Ma l’istruzione non deve essere solo finalizzata alla ricerca del lavoro; è tutta la persona che va contemplata nel suo percorso verso la fioritura; tornare ad investire nella scuola e nelle università è fondamentale per una convivenza democratica. Occorre arrivare ad elaborare una teoria della giustizia nell’istruzione: come, quanto, dove e con che esiti si fanno investimenti in istruzione? In troppi paesi le dinamiche sono castali per la formazione delle persone.
Abbiamo molte possibilità di plasmare il mondo in modo diverso da come lo vediamo: il regime politico scelto, sia storicamente sia per quanto riguarda il futuro, determina la struttura delle disuguaglianze e quindi la qualità della vita. Se oggi abbiamo inequità (parola cara a papa Francesco) significa che dobbiamo migliorare la politica e le politiche. In ordine a questo occorre fare molta attenzione al finanziamento della vita politica e della democrazia elettorale. Piketty propone i buoni per l’uguaglianza democratica che consistono «nel dare a ogni cittadino un buono di uguale valore, per esempio 5 euro all’anno, che l’elettore assegnerà al movimento politico o al partito di suo gradimento […] La democrazia non è un’opzione: il finanziamento pubblico deve essere corrisposto comunque, anche se alcuni soggetti non vogliono essere coinvolti […] L’obiettivo dei buoni per l’uguaglianza democratica è quello di promuovere una democrazia partecipativa ed egualitaria. Allo stato attuale il finanziamento totalmente privato altera in modo pesante la dialettica politica» (p. 1150-1151). In ogni caso, assieme ai referendum e alla chiarezza dei bilanci potrebbe essere uno strumento per riavvicinare il popolo alla democrazia, senza desiderare una democrazia diretta, per aiutare la democrazia parlamentare ad essere «più dinamica e partecipativa» (p. 1154).
Vi è un altro aspetto da considerare: la dimensione transnazionale della costruzione della giustizia. I temi che si dovrebbero toccare sono: la circolazione delle persone, la concorrenza fiscale che gli Stati si fanno reciprocamente, l’ambiente. Qui giocano gli egoismi dei vari attori in gioco e la scarsa autorevolezza delle organizzazioni internazionali. Si potrebbe arrivare alla costituzione di una Assemblea transnazionale che si occupi dei beni comuni. Il parlamento europeo è un modello da cui partire. Al di là delle piste concrete suggerite, è bene estendere il dibattito sulla giustizia oltre i confini usuali, per un bene ancora più ampio e solido. Per esempio, a partire dall’imposta sulle società che ha visto una guerra al ribasso per attirare investimenti e creare occupazione, cosa che distrugge giustizia sia in quel paese che nel resto del mondo.
«Di fronte al fallimento annunciato delle ideologie basate sul liberalismo e sul nazionalismo, solo lo sviluppo di un socialismo autenticamente partecipativo e internazionalista, fondato sul federalismo sociale e su una nuova organizzazione collaborativa dell’economia mondiale, consentirebbe di risolvere queste contraddizioni» (p. 1167). Ma questo non può che passare dal rimettere l’economia nell’ordine dei mezzi e la politica nell’ordine dei fini[5]: solo così possiamo recuperare la speranza[6].
Per ritrovare la speranza è opportuno riandare in modo fecondo ai grandi eventi gravidi di nuovi orizzonti, come l’Assemblea Costituente, dove emerse il personalismo economico che ha avuto uno dei suoi massimi esponenti in Amintore Fanfani; nel 1944 scriveva: «La disciplina che la concezione personalistica della vita impone allo svolgimento dell’attività economica ha lo scopo: a) di armonizzare l’auspicabile accrescimento delle disponibilità di mezzi economici da parte dell’individuo e della collettività con il pieno sviluppo della persona umana; b) di conciliare il soddisfacimento delle esigenze economiche di ciascun individuo con il bene comune; c) di garantire che qualsiasi attività economica collettiva non abbia altro fine che quello di realizzare le condizioni economiche indispensabili al potenziamento della persona e al raggiungimento del bene comune»[7].
È dalla democrazia che dobbiamo ripartire: essa è un fattore necessario per la vita stessa del sistema economico: «con la globalizzazione non abbiamo soltanto un ampliamento dei mercati (una prima globalizzazione di questo tipo l’Europa l’aveva fatta dal secolo XVI in poi) ma la fine del mercato occidentale come si è sviluppato negli ultimi secoli. Con la crisi degli Stati sovrani e la prevalenza assoluta delle grandi concentrazioni finanziarie “senza fissa dimora” è venuto meno il rapporto di equilibrio e di tensione tra la politica e il mercato che ha caratterizzato questo sviluppo: non soltanto si indebolisce la politica (intesa come stato di diritto e democrazia) ma viene anche meno il “nostro” mercato. Componente del mercato occidentale, checché ne dicano i teorici neoclassici, è il rapporto con la politica (rapporto che non può essere identificato per nulla con il dirigismo o con lo statalismo): democrazia e mercato simul stabunt simul cadent».[8]
Solo scelte radicali in economia possono essere degne di una nuova politica: ripartiamo di qui.
Thomas Piketty, Capitale e ideologia, Ed. La nave di Teseo
[1] Fonti di ispirazione per la proposta sono due autori del socialismo solidarista francese: Léon Bourgeois e Emile Durkeim, prendendo invece le distanze dall’impostazione della Democrazia dei proprietari, che in qualche autore ha avuto accenti particolarmente conservatori.
[2] Cfr. M. MAZZUCATO, Il valore di tutto. Chi lo produce e chi lo sottrae nell’economia globale, Laterza, Roma-Bari, 2018.
[3] «Le Costituzioni e le dichiarazioni dei diritti affermatesi alla fine del XVIII secolo e nel corso del XIX furono profondamente condizionate dall’ideologia proprietarista all’epoca predominante, fattore che determinò un’autentica protezione costituzionale concessa ai diritti di proprietà stabiliti in passato» (p. 1124).
[4] Le imposte indirette sono regressive e non hanno senso se non forse per tassare ciò che fa male alla comunità , come le emissioni di gas serra. Occorrerà «la tassazione progressiva dei singoli consumatori per la CO2 emessa» (p. 1137).
[5] «Sono convinto che parte del dissesto contemporaneo della democrazia derivi da un’eccessiva autonomia del sapere economico rispetto alle altre scienze sociali e al contesto civile e politico» (p. 1174)
[6] «L’isolamento del sapere economico non ha solo danneggiato l’ambito della ricerca storica e sociale, ma ha avuto effetti negativi anche nella sfera civile e politica, perché ne ha alimentato il fatalismo e la sensazione d’impotenza» (p. 1175).
[7] A. Fanfani, Per un’economia personalistica, in “Civitas humana”, a. I, marzo 1945, 3, p. 48.
[8] P. Prodi, Non rubare: il VII comandamento nella storia dell’Occidente. Lezione tenuta in occasione del proprio 75° compleanno, Bologna, San Giovanni in Monte, 29 Ottobre 2007, 12-13.