L’ultima versione del D.L. Semplificazioni contiene un importante cambiamento in materia di appalti pubblici.
Già nelle ore precedenti il varo del decreto da parte del Consiglio dei Ministri era stata stralciata la norma che prevedeva la regola del massimo ribasso quale criterio di aggiudicazione degli appalti, a seguito della forte protesta delle organizzazioni sindacali e all’azione politica delle forze più sensibili nella maggioranza di governo, a partire dal gruppo di LeU e di Articolo Uno.
Altrettanto importante – anche se scarsamente sottolineata dai media – è la vera e propria riforma del regime di subappalto contenuta nell’articolo 50 del decreto legge.
Il testo compie tre passaggi fondamentali:
- a) nega la possibilità di cedere in subappalto l’esecuzione della prevalenza dell’oggetto dell’appalto, innovando rispetto alle disposizioni precedenti, che prevedevano solo un limite quantitativo (il 40%) del valore dell’opera o del servizio);
- b) obbliga il subappaltatore, qualora l’oggetto del subappalto sia riconducibile ad attività comprese nell’oggetto sociale dell’appaltante, a garantire ai propri dipendenti una condizione economica e normativa non inferiore a quanto avrebbe dovuto erogare l’appaltante mentre prima era addirittura prevista la possibilità di una riduzione del 20% del costo del lavoro per effetto del ricorso al subappalto!;
- c) obbliga in solido appaltante e subappaltatore rispetto alle disposizioni di legge e di contratto.
L’insieme di queste tre disposizioni, cui si accompagna una norma transitoria valida fino al 31 ottobre che ammette il ricorso al subappalto fino al 50% del valore dell’appalto, è tale da rivoluzionare potenzialmente una normativa il cui punto d’inizio è rintracciabile nell’articolo 29 del D.Lgs. 276/03, la cosiddetta legge Biagi.
Tale legge separava le condizioni normative ed economiche da rispettare nella catena del subappalto da quanto era applicato nella stazione appaltante: in questo modo era stata cancellata una norma di molti anni prima, l’articolo 3 della legge 1369/60 (sì, avete letto bene, siamo in pieno governo centrista) che obbligava chi ricorresse ad un appalto “interno al ciclo produttivo” a garantire ai lavoratori lì impiegati lo stesso trattamento dei lavoratori dipendenti diretti.
Grazie al peggioramento introdotto nel 2003 è diventato facile e giuridicamente legittimo ricorrere non solo al massimo ribasso, ma applicare nella catena dei subappalti ogni possibile contratto collettivo, compresi quelli firmati da soggetti privi di ogni rappresentatività.
In questo settore ha svolto un ruolo negativo, negli anni scorsi, anche l’Unione Europea, che ha minacciato di multare l’Italia per la norma che limitava al 30-40% del valore dell’appalto la possibilità di ricorrere al subappalto in quanto “lesiva dei principi della concorrenza”.
E’ merito delle organizzazioni sindacali aver ripreso una lunga battaglia di cui un primo risultato fu il riconoscimento della responsabilità in solido di appaltante e subappaltatore varata dal Parlamento nel 2016 per impedire il referendum che in materia aveva promosso la Cgil. Questa battaglia è stata vinta grazie ad un intelligente collegamento con le forze politiche della sinistra che, all’interno della vasta maggioranza che sostiene il governo Draghi, si battono per il miglioramento delle condizioni delle lavoratrici e dei lavoratori.
Adesso a quel tassello se ne aggiungono due altri di uguale se non maggiore importanza: la parità di trattamento da assicurare a chi fa lo stesso lavoro nella filiera e l’impedimento di cedere in maniera prevalente l’attività specie in appalti ad alta intensità di lavoro.
Il risultato di queste norme sarà che la cessione a terzi di lavori avverrà per la maggiore qualità dei servizi offerti, e non per mere ragioni di risparmio: in fin dei conti si conferma in questo modo che la salvaguardia dei diritti dei lavoratori si può ben accompagnare con il rafforzamento e la qualificazione dell’apparato produttivo e di servizio.