Era nato a Bologna il 19 maggio 1926, Francesco Berti Arnoaldi Veli. La formazione, non solo sui libri, al liceo Galvani. Lì l’incontro con Giuliano Benassi, compagno nella Resistenza, a cui ha dedicato Viaggio con l’amico, per i tipi di Sellerio, tradotto in francese da Jacques Dalarun e recensito da Jean-Louis Panné per la “Quinzaine littéraire”; in tedesco da un altro Giuliano Benassi, residente a Costanza, pronipote del primo.
Durante la guerra aderisce al Partito d’Azione e diventa partigiano nella Brigata «Giustizia e Libertà» insieme a Enzo Biagi, il quale, in memoria di quel passato, il giorno del funerale, a Pianaccio, sull’Alto Reno, ha voluto essere accompagnato dalle note di Bella ciao.
Ha scritto Francesco Berti: “è lì che siamo nati”, il 24 giugno 1944, a Ronchidoso, nel comune di Gaggio Montano, nel gruppo intitolato al giornalista Ezio Cesarini. Lì, sul crinale della Linea Gotica, sul finire di settembre del 1944, i nazisti uccisero, per rappresaglia, oltre sessanta civili, in gran parte anziani, donne e bambini; come, contestualmente, a Marzabotto.
Nacque così il legame tra Francesco Berti e Enzo Biagi, il giorno in cui Francesco vide arrivare Enzo “sul prato”, “ragazzo mingherlino, coi calzoni corti”, che, “per venire alla macchia aveva dovuto solo aprire la porta di casa, e fare quei venti minuti a piedi che occorrevano per raggiungere la Segavecchia”. E fu lì che Enzo Biagi diresse il suo primo giornale, che “inventò, compose, scrisse Patrioti”, “facendone uscire tre numeri che oggi sono degli incunaboli”.
Lì crebbe il senso di appartenenza a un’altra visione del Paese. Insieme: perché “insieme” “era la parola chiave di quel vivere la Resistenza”. Una metamorfosi: “Che cosa realmente siano stati, nelle nostre vite, quei mesi, ce lo disse il vivere diverso nel quale eravamo entrati, e che ci aveva letteralmente cambiato pelle. Senza crisi, senza declamazioni. Sentimmo di essere diversi, e le nostre immagini di quando eravamo balilla pendevano nella memoria ormai inerti, e senza vita, come il burattino che Pinocchio era stato”.
Anni più tardi, nello scenario di quell’“Appennino partigiano”, Carlo Azeglio Ciampi, presidente della Repubblica, volle presenziare, insieme al cardinale Ersilio Tonini, al ricordo del “capitano Toni”, Antonio Giuriolo, “dagli occhi d’angelo, caduto sotto Monte Belvedere”.
Nel dopoguerra Francesco Berti custodisce e diffonde quell’esperienza di vita. Diventa presidente della F.I.A.P. – Federazione Italiana Associazioni Partigiane e della Fondazione ex-campo di Fossoli; per sedici anni dell’Istituto regionale “Ferruccio Parri” per la storia del movimento di liberazione in Emilia-Romagna; membro fondatore del comitato per la difesa della Costituzione (comitati “Dossetti”); primo presidente del Centro di documentazione storico-politica sullo stragismo. Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al merito della Repubblica italiana per motu proprio del presidente Oscar Luigi Scalfaro (il 4 luglio 1998).
Poi la professione di avvocato, dal 1978 al 1980 presidente della Cassa Nazionale di Previdenza Avvocati. Per otto anni nel Consiglio dell’Ordine di Bologna. Membro laico della Commissione del Consiglio Superiore della Magistratura per la riforma del processo civile (Commissione “Borrè”).
Nello stesso tempo coltiva la curiosità per la cultura. Per la musica: è tra i fondatori di Bologna Festival. Per l’arte: è presidente degli Amici del Museo Morandi (non senza esprimersi sulla sua collocazione). Forse non tutti sanno della sua predilezione per il poeta inglese Shelley, sul quale, ripercorrendo le frequentazioni letterarie paterne, ha lasciato un saggio (Perché l’Epipsychidion? nel 1992), dal quale, in un primo momento, aveva pensato di trarre una “piccola brochure, ma mi è parso che sarebbe stato un atto di presunzione”.
Antifascismo e cultura. Francesco Berti lascia un patrimonio di libertà e di laicità. Non può essere dimenticata la Lettera aperta al cardinale di Bologna Carlo Caffarra: “Io non ci sto. Rappresento solo me stesso, anche se conosco molti bolognesi che hanno sentimenti consonanti con i miei. Tra questi, tanti preti che nella città sono stati e continuano a essere presenze insespugnabili da ogni tentativo di assorbimento a una cultura di banalità, di benessere, di chiusura ai diversi”. E ancora: “Se si vuole veramente affrontare il problema (che esiste, ed è un macigno) della perdita di speranza, bisogna innanzitutto che ciascuno cominci con l’interrogare se stesso, e prima di tutto cerchi di capire le ragioni per le quali oggi non Bologna, non l’Emilia, non l’Italia, ma il mondo intero sta vivendo la conversione del futuro da speranza in minaccia: tanto più temibile quanto più inafferrabile e vaga, giacché chi può oggi sensatamente sapere e dire verso che cosa stiamo andando?”. Siamo nel giugno del 2008.
Francesco Berti nutriva un’idea dei partigiani come donne e uomini, in carne e ossa, capaci di fare la scelta giusta, contro l’opportunismo, l’indifferenza, l’attesa. Con fiera coscienza della propria identità. Con la convinzione che aver avuto ragione non debba comportare sensi di superiorità ma neppure il contrario. Piuttosto deve rendere coscienti di aver contribuito a promuovere un diritto che ora è a disposizione di tutti, anche di chi allora era dall’altra parte. In un tempo di sovranismi dimentichi della Costituzione, un costituzionalismo non teorico e astratto, ma autenticamente vissuto, attraverso l’attiva partecipazione alla liberazione del Paese.
Senza coltivare nostalgie, se non orientandole verso il futuro. Come Francesco Berti amava ripetere: “Noi non dobbiamo fare dei piagnistei sugli amarcord, ma parlare al presente, perché oggi è al presente che si resiste”.
Era una persona dotata di un senso coinvolgente della relazione. Una volta, non potendo presenziare a un’iniziativa, volle inviarmi un biglietto, scritto di suo pugno, nel quale, ad un certo punto, diceva: “mi è mancato l’abbraccio che ci saremmo scambiati”. Quell’abbraccio, da oggi, mancherà a tutti coloro che gli hanno voluto bene e che, nel suo ricordo, vorranno proseguire il suo impegno.