L’8 marzo di quest’anno coincide (quasi) con l’anniversario del primo lockdown. Un virus sconosciuto ha sconvolto le nostre vite, colpito, ucciso ed innescato una crisi economica e sociale di portata mondiale. In tutto quest’anno, le donne hanno pagato un prezzo altissimo: i dati Istat di dicembre mostrano le donne sono il 99% di chi ha perso il lavoro nell’ultimo periodo, 440.000 in un anno. Sono state e sono in prima fila nella lotta contro il virus nelle professioni sanitarie, come addette alla pulizie, badanti, impiegate nei supermercati, hanno affrontato il momento drammatico del lockdown con il sovraccarico del lavoro domestico, che svolgono in un numero di ore molto maggiore degli uomini. Le richieste di aiuto contro la violenza maschile sono raddoppiate durante i periodi di reclusione forzata.
La pandemia è una lente di ingrandimento che amplifica i problemi preesistenti, ma ci spiega anche l’interdipendenza delle nostre relazioni, ci dimostra che abbiamo bisogno gli uni degli altri. Il tema della cura, su cui le donne riflettono e discutono da tempo, è diventato centrale: non riguarda solo l’ambito sanitario o lavori generalmente considerati secondari, ma è un “prendersi cura” che chiede di considerare i servizi pubblici come motore di uno sviluppo diverso, per superare le scelte che in questi anni hanno colpito la sanità e la scuola pubblica, impoverito le politiche sociali, aggravato le diseguaglianze.
Attraversiamo una crisi della cura, che impone un ripensamento radicale del modello economico, sociale, ambientale che ci ha portato fin qui invadendo ogni ambito con la logica del profitto. Serve che a sinistra si apra una discussione e si affronti una battaglia politica, affinché anche le risorse del Recovery plan siano utilizzate in questo senso: vaccini come bene comune, rilancio della sanità universale e dei servizi territoriali, l’affermazione di un nuovo sistema di diritti per lavoratori e lavoratrici, una innovazione digitale democraticamente orientata, una transizione ecologica che cammini insieme alla giustizia sociale, un grande piano di infrastrutturazione sociale, che punti su servizi per l’infanzia, per gli anziani, per la non autosufficienza. Dobbiamo investire sui grandi beni pubblici, la scuola, la sanità, i servizi sociali, i trasporti. Difendere l’ambiente in cui viviamo e gli spazi collettivi delle città. Le risorse devono essere orientate a colmare le diseguaglianze di genere, attraverso una valutazione di impatto, per portare l’occupazione femminile dal misero 48,4% alla media dell’occupazione europea, cioè oltre il 60%, cosi come chiedono in tante.
Sulle parole della giovane europarlamentare francese Manon Aubry, che accusa le istituzioni europee di essersi inchinate alle grandi aziende farmaceutiche, la sinistra deve ingaggiare una battaglia. Deve rispondere alla crisi delle politiche sociali, che lasciano morire nelle Rsa migliaia e migliaia di anziani, alla drammatica condizione del lavoro dei giovani e delle donne, alle diseguaglianze nel sistema di istruzione, alla cronica mancanza di servizi per l’infanzia per cui solo il 12 per cento dei bambini frequenta un asilo nido.
Sono sfide che impongono necessariamente di aprire un capitolo nuovo a sinistra. Le dimissioni di Nicola Zingaretti sono lo specchio di una crisi che riguarda tutti, un Pd costitutivamente dilaniato da lotte interne, una LeU troppo piccola, rimasta solo un gruppo parlamentare, la definizione di un’alleanza con un Movimento 5 Stelle scosso dalle vicende travagliate dalla legislatura. È necessaria una ridefinizione profonda dei soggetti e del nostro campo. E chi più delle donne della sinistra è interessata a portare avanti una critica radicale agli attuali assetti politici e costruire una proposta di cambiamento? Un cambiamento di cultura politica, di lettura e visione del mondo, che metta in discussione un sistema che le mette ai margini della vita pubblica. Quanto è stato importante il movimento del me too per battere Trump e una destra americana che del machismo ha fatto un suo tratto identitario? E non è anche grazie a quel movimento mondiale che ora, per la prima volta, al governo degli Stati Uniti c’è Kamala Harris? È arrivato il momento di confrontarsi, di là degli steccati predefiniti tra partiti, movimenti e associazioni, di costruire una forza d’urto delle donne. Verrebbe da dire: se non ora quando? Non siamo le vittime di un modello di potere maschile, siamo le attrici di un racconto nuovo in cui la libertà femminile può cambiare il mondo.