Il popolo della pace ha dato un messaggio fortissimo al governo e al Parlamento: occorre correggere la linea di politica estera che negli ultimi mesi il paese ha avuto e impegnarsi a fondo per aprire uno spiraglio di negoziato. È inutile girarci attorno o fare finta di niente: si chiede all’Italia e all’Europa un ruolo più assertivo sul terreno della diplomazia, provando ad aprire una breccia nella logica che finora ha guidato l’Occidente nel contrasto all’inaccettabile aggressione della Russa di un territorio sovrano. Questa domanda non è l’annuncio di una resa, ma l’invito a rivedere una condotta che al momento non ha evitato un’escalation militare.
Emerge in profondità un sentimento popolare contro la retorica della guerra, che coinvolge larghi strati sociali della popolazione, così come rilevano anche da tempo numerosi istituti demoscopici. Si chiede un ritorno della politica, si chiede un cessate il fuoco duraturo e un negoziato concreto che coinvolga gli attori internazionali – Usa Cina ed Europa compresa -, si chiede l’adesione da parte dell’Italia al trattato per la proibizione delle testate nucleare già sottoscritto da 122 paesi. E si fa strada, infine, anche una richiesta di revisione della strategia di invio delle armi all’Ucraina.
Questo è un punto ovviamente delicato, il governo si appresta a decidere il sesto invio di armi difensive al governo Zelensky, gli Usa preparano un altro decreto di 50 miliardi di aiuti – benché aprano un canale diplomatico importante con la Cina con l’incontro di Bali tra Biden e Xi che segna una svolta -, compresi quelli militari, così come altri paesi europei.
La domanda è: fino a quando e per quali obiettivi militari? Si può ragionevolmente pensare che il flusso di armamenti porti a una vittoria militare sul campo dell’Ucraina, facendo ritirare la Russia – così come chiede il Presidente ucraino – dietro i confini del 2014, Crimea compresa?
Dopo Kherson e la disfatta dell’esercito russo Zelensky ha annunciato che l’obiettivo era recuperare integramente tutti i territori. Addirittura il segretario generale della Nato ha detto che sarà il campo di battaglia a determinare le sorti della guerra, confermando di essere un passo abbondante indietro rispetto ai suoi datori di lavoro di Washington.
Sappiamo che questa impostazione non porterà al negoziato, perché anche una strategia di deterrenza di medio periodo senza la politica non produce risultati, se non una guerra che continua in un tempo indefinito. Serve dunque una svolta, anche dell’Italia e in particolare delle forze progressiste.
Persino dagli Usa cominciano ad emergere voci che chiedono una condivisione degli obiettivi che il governo ucraino si pone in questa fase del conflitto. Qual è il punto di compromesso? Quali sono i risultati realizzabili per difendere libertà e sovranità dell’Ucraina? Come si intende immaginare un rinnovato rapporto tra est e ovest dopo la fine della guerra in termini di cooperazione e sicurezza? Insomma, le cose si muovono nonostante la palude della guerra che continua a mietere lutti e profughi.
L’argomento di chi sostiene che senza gli aiuti militari l’Ucraina sarebbe già caduta rischia di essere superato dai fatti, perché è evidente la crisi sul campo della Russia, la sua incapacità di fare i conti con una sconfitta clamorosa rispetto agli obiettivi iniziali di Putin, fiaccato dalla crisi economica, dalla forza delle sanzioni e da un’opinione pubblica interna che inizia a diffidare delle scelte della nomenclatura del Cremlino. Ed è evidente che un salto di qualità della guerra nella direzione di uno scontro più diretto tra Nato e Russia può produrre soltanto un’escalation che metta nel conto l’indicibile, ovvero lo sdoganamento del ricorso alla bomba atomica.
Queste domande sono presenti nel dibattito pubblico, incrociano la sensibilità diffusa dei popoli europei, interrogano persino le cancellerie, investono il messaggio universale di un papato che per primo ha parlato del rischio di una terza guerra mondiale, rilanciando questo monito nell’Angelus di domenica scorsa.
Devono interrogare necessariamente anche il legislatore. Perché per fermare la guerra ci vuole la politica. E per restituire alla politica una centralità occorre che si facciano bilanci coraggiosi sulle scelte fatte fin qui e sugli effetti che le decisioni prese hanno prodotto. Senza aver paura di rivedere le posizioni assunte fin qui e senza limitarsi all’evocazione della continuità con il governo precedente. Quella continuità non coincide automaticamente con gli interessi dell’Europa e con i desideri di pace di larghissime fasce della popolazione.