È di queste settimane il fenomeno delle coalizioni civiche. Se ne parla a Padova, a Belluno, a Verona. Repubblica tempo fa le presentò come “riformismo partecipato”, come una forma di partecipazione politica che nasce fuori (e contro?) i partiti, e comunque lontano da essi. Le cifre, a dire il vero, sono considerevoli. A Padova la coalizione conterebbe millesettecento iscritti contro i duecento circa del Pd. Ci chiediamo: basta questo a produrre “il più coerente tentativo di uscire dalla crisi di sistema”, come lo ha definito il filosofo Umberto Curi? Sarà vero, come dice Repubblica, che a questi cittadini coalizzati in proprio manchino, in fondo, solo i soldi per stampare i manifesti, e il più sarebbe fatto? Certo, se la politica si riducesse alla “partecipazione”, alla “inclusione”, ai gesti pubblici di denuncia anche d’effetto, alla indignazione, alla “trasparenza”, all’uomo comune al potere, il più sarebbe davvero fatto. Ma questo non basta, non può bastare. Senza una visione, una prospettiva, un’idea di Paese e di città, senza uno scenario più largo della semplice manutenzione urbana, delle buche da tappare, della prossimità simbolica ai disagiati – senza un quadro preciso delle risorse, senza un contesto organizzativo, senza fare i conti con la macchina amministrativa, senza nemmeno un’esperienza di governo, senza uno sguardo strategico e progettuale – senza tutto ciò il governo si riduce a testimonianza, a riflesso comunicativo, al trasferimento del senso dell’opposizione direttamente sugli scranni di giunta. C’è un gap tremendo tra “tappare le buche, regolarizzare il servizio di trasporto pubblico, fare manutenzione dei giardini” e proporre invece un destino per la città che vada oltre la gestione, per quanto sana, onesta, oculata, “trasparente”. Che poi, alle volte, sotto la trasparenza cova spesso il suo contrario, il rischio e l’eccesso di permeabilità a interessi piccoli e grandi.
In fondo, le coalizioni civiche, per quanto testimonino sforzi lodevoli, sono ancora un pezzo della crisi di sistema di questo Paese, ne rappresentano l’estremo esito, non il superamento. La crisi riguarda la politica, il suo statuto, le forme che ha assunto, la sostanza che esprime. Il nostro Paese (e le nostre città) sono nel vuoto di una visione che vada oltre il tempo presente, di una prospettiva che si configuri come un disegno di riscatto, di una temporalità che scavalchi le attuali contorsioni istituzionali. In assenza di questa “profondità”, la politica (o quel che ne resta) continua a dibattersi nella giungla della comunicazione, nel leaderismo, nell’individualizzazione delle risposte, nel politicismo, nei tecnicismi della rete. Abbiamo il timore che anche le coalizioni, per quanto volenterose, non possano uscire da questo ginepraio, scambiando gesti pur importanti di solidarietà (come sedere alla mensa degli immigrati) come effettivi atti di governo presenti o futuri. No. L’Italia, le nostre città non sono scenari o sfondi di gesta buone solo per i media. Serve politica organizzata, sapiente, serve una prospettiva che solo partiti rifondati, solo istituzioni animate da un’effettiva rappresentanza e classi dirigenti preparate e appassionate possono darci. Per questo è essenziale che la politica si svegli, che le coalizioni trovino forze politiche pronte ad ascoltare, a mettersi in gioco – che si apra un dibattito vero tra partiti e movimenti, che la democrazia locale si ampli alle voci dissonanti, che si sviluppi uno sforzo congiunto e vi siano forze portatrici di una visione politica che sappiano far tesoro delle istanze presenti nel civismo. Perché non basta un “cittadino” Sindaco da solo, per quanto onesto, a dare una svolta di governo. Le buche vanno tappate, certo, ma si tratta di ripensare il destino e la vita delle città. È questo è compito della politica, dei partiti e dei movimenti in uno sforzo comune. Sennò siamo “da capo a dodici”, come si dice a Roma.
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