Sono impressionato dai tre giorni di discussione parlamentare sul decreto dignità. È stata la prima vera occasione di confronto politico di questa legislatura. Ho ascoltato con attenzione e curiosità le oltre quaranta ore di dibattito in aula che rappresentano un tempo significativo per cogliere i tratti della nuova stagione. Ho registrato con amarezza nell’aula di Montecitorio uno spostamento culturale e politico verso destra che va ben oltre i numeri delle elezioni del 4 marzo.
La Lega, quasi sempre silente in aula, ha ormai egemonizzato i 5 Stelle, che hanno dovuto rinunciare ad una parte significativa delle loro battaglie sull’altare dell’alleanza con Salvini. Il titolo e l’indice del decreto Di Maio avevano suscitato aspettative in parti significative della sinistra politica e sociale, ma lo svolgimento parlamentare ha avuto un segno radicalmente opposto.
Io per primo, all’annuncio del decreto, ho ritenuto fosse giusto sfidare il governo senza pregiudizi e valutare se davvero potesse aprirsi una pagina nuova, rimettendo al centro la dignità e la sicurezza del lavoro. Purtroppo così non è stato. Si diceva di voler combattere la precarietà e invece sono tornati i voucher che della precarietà sono il simbolo più estremo. Si diceva di voler reintrodurre le garanzie e le tutele dell’articolo 18 annunciando addirittura una “Waterloo del Jobs Act”, e invece in aula è stato bocciato l’emendamento Leu che prevedeva il ripristino dell’articolo 18. I pochi avanzamenti sono confusi e contraddittori e il timore di un effetto negativo sul mercato del lavoro è sempre più realistico. In definitiva il decreto ha rappresentato una clamorosa occasione perduta e il nostro voto no, che non era scontato dopo l’annuncio del provvedimento, ha voluto segnalarlo con nettezza.
Quello che però più mi ha colpito è come in aula le ragioni culturali della sinistra e del mondo del lavoro siano minoritarie e schiacciate dalla montante egemonia della destra. Lo stesso Pd è ancora, purtroppo, prigioniero di se stesso, chiuso nella rivendicazione di un passato su cui gli italiani hanno dato un giudizio definitivo con il voto del 4 marzo. L’opposizione dem è stata essenzialmente fatta “da destra”, in modo particolare sulle delocalizzazioni e sui contratti a termine, ripercorrendo gli errori di subalternità al neoliberismo che la sinistra europea ha commesso negli ultimi venti anni. Su questo terreno non può stupire la costante convergenza di merito tra loro proposta politica e quella di Forza Italia. In Parlamento la sensazione di omogeneità culturale attorno a un profilo liberal-democratico e rassicurante per l’establishment tra Pd e Forza Italia è molto forte e non lascia ben sperare per il futuro.
L’unica opposizione “da sinistra” è arrivata dai quattordici deputati di Liberi e Uguali. Non è un caso, ma una drammatica fotografia della realtà politica, che l’emendamento per il ripristino dell’articolo 18 sia stato votato dai deputati di Leu e da una sola parlamentare del Pd, Barbara Pollastrini, in dissenso dal suo gruppo.
Credo che nella società la sinistra rappresenti molto di più di quello che rappresenta in Parlamento. Ed è proprio nella società che andrà costruita una nuova grande alleanza per l’alternativa. Eppure in Parlamento dobbiamo fare con coraggio la nostra parte, far sentire con tutta la forza di cui disponiamo la nostra voce, che al momento è l’unica veramente alternativa all’egemonia della destra.