Poteva mettere soggezione, se pensavi al suo vertiginoso passato di padrone dell’Italia, come si diceva. Poteva sembrarti totalmente indifferente o addirittura assente rispetto a quello che gli accadeva intorno, quando si guardava intorno assorto, pronto a prendere il braccio di qualcuno e lanciarsi in uno dei suoi ragionamenti in Transatlantico. Ciriaco De Mita era invece una persona ironica e affettuosa. Quando mi entusiasmai per la sua candidatura a sindaco di Nusco – era il 2014, aveva già quasi novant’anni – e scrissi sul mio piccolo blog che questa era una testimonianza straordinaria di amore per la gente e per la politica, dopo qualche giorno mi telefonò: “Ho chiamato per ringraziarti. Si vede che lo hai scritto col cuore”. Poi stette lì mezz’ora a spiegarmi perché non era vero che nel 2008 se n’era andato dal Pd: lo avevano estromesso.
Capita di vederla così, a chi se ne va. Oggi ne so qualcosa anch’io. La sua battaglia nel Pd, De Mita l’aveva persa: ma non era il solo. Lui pensava a un partito fatto di identità forti, che si univano senza complessi culturali (“io ho fatto i conti col marxismo. Forse è il marxismo che non ha fatto i conti con me”); e invece il Pd lo fondarono i nuovisti, i fautori della post ideologia e poi del catch-all party. Lui doveva rimanere ai margini non tanto per un posto in lista, ma perché era un simbolo, a differenza di altri non metabolizzabile. E anche perché aveva, indubitabilmente, un cattivo carattere e una scarsa dotazione di modestia e adattabilità.
Ma aveva torto, De Mita? “Il Pd non esiste più. Esistono ‘quelli del Pd’, che fanno le cose più scombinate”, mi disse in quella telefonata, ed era il 2014. Eravamo all’inizio della scalata renziana, del cedimento culturale totale non ancora superato di quella stagione. A un partito con radici più forti e una maggiore coscienza di sé sarebbe successo lo stesso? Non credo. E parlo di quella e di altre sbandate.
Contro il nuovismo si prese la sua rivincita, in un’epica serata televisiva del 2016. Matteo Renzi favoriva questi confronti a due sul referendum, gli piaceva confrontarsi coi professoroni e i vecchi rottami per apparire come il riformatore della Repubblica, il ragazzo d’oro della nuova politica. Quella sera da Mentana il frame si ruppe, contro De Mita, e apparve quello che era vero: il nuovismo era vuoto e arrogante, e vecchio. “Se la politica è mestiere dura pochi anni, se è pensiero dura tutta la vita”, disse De Mita quella sera. Travolgendo il primato della comunicazione e la strategia della rottamazione con uno scatto che spostava il terreno di gioco: la vocazione, l’ispirazione valoriale, la rappresentanza.
De Mita parlava difficile e complesso, era quasi impossibile da sintetizzare. Ma dietro i suoi ragionamenti di intellettuale della Magna Grecia (dubito che gli dispiacesse essere definito così) spuntava sempre l’aneddoto sul nonno sarto, la frase della madre, i mestieri della gente a Nusco, la raccomandazione di un vecchio prete. De Mita sapeva chi era e chi voleva rappresentare, e conosceva la realtà che voleva cambiare. E aveva scelto e amato per tutta la vita lo strumento per farlo: la politica.