Il succo del bel libro di Ferruccio de Bortoli è tutto nel titolo: “Poteri forti (o quasi)”. Dai suoi privilegiati punti di osservazione (per due volte quello della direzione del Corriere della Sera, in periodi diversi con in mezzo quella de “Il Sole 24 Ore”) passa in rassegna la storia del capitalismo italiano e dei suoi rapporti non sempre edificanti con la politica. In quella parentesi, in quel “quasi” c’è poi una precisa considerazione, anzi due: quei poteri non sempre sono stati forti e probabilmente questo non è stato un bene né per i protagonisti dell’economia né per quelli della politica. Probabilmente perché i poteri per essere forti debbono essere autorevoli e non sempre chi ha preteso di esercitarli lo era.
Questa almeno è l’idea che mi sono fatto io leggendo il libro. Ed una conferma di questa convinzione me la sono fatta, andando avanti nella lettura,anche sulla base del titolo di quello che, sempre secondo me, è il capitolo chiave di questo libro: “Miserie (molte) e nobiltà (poca) del capitalismo italiano”. Come si nota, ancora una volta de Bortoli si affida al sapiente uso delle parentesi. Ma adesso lasciamo da parte i titoli e facciamo parlare l’autore. Lavorando al “Corriere” e poi al “Sole”, scrive, la nostra trincea era ovviamente quella del privato. Se c’è un errore che abbiamo compiuto – certamente io per primo – è stato quello di credere un po’ troppo che tutte le virtù risiedessero nella parte dell’imprenditoria privata. Soprattutto in quella che chiedeva a gran voce privatizzazioni e libertà dei mercati e poi si sarebbe rifugiata volentieri negli ex monopoli pubblici, come a ripararsi da una concorrenza internazionale per la quale nutriva timori”. I casi dei capitani coraggiosi ai tempi di Telecom e dei patrioti in cordata per l’ Alitalia confermano le solide basi sulle quali poggia la tesi di de Bortoli.
Il quale ci ricorda che tra il 1992 e il 2000 “sono stati ceduti ai privati pacchetti azionari per duecentomila milardi di lire”. E qui ci vengono segnalati due paradossi. Il primo: “Oggi la Fiat si chiama Fca e non è più italiana. Sede legale e sede fiscale sono state portate all’estero senza polemiche. Anzi, Sergio Marchionne e John Elkann sono stati accompagnati alla frontiera dall’allora premier Matteo Renzi, che li ha pure ringraziati, indicandoli ad esempio. E non ha pensato nemmeno per un attimo a una sorta di exit tax”. Come usa altrove. Il secondo paradosso è che “la Confindustria è oggi dominata dalle imprese pubbliche (ENI,ENEL, Ferrovie, Poste) decisive, per esempio nella designazione nella primavera del 2016 del presidente Vincenzo Boccia”.
E allora? Averceli, i poteri forti. Invece di piccoli “poteri opachi”. I quali si consolidano in quelle che de Bortoli chiama “cordate personali, piccole consorterie, corporazioni ottuse, egoismi locali e miopie collettive. Sciami di manager attenti al proprio personale tornaconto nel breve periodo – a volte in combutta con consulenti e cacciatori di teste – abili nel saltare da un incarico all’altro e del tutto disinteressati al futuro delle aziende e tantomeno dei loro dipendenti”. In questo quadro sconfortante c’è poi la fragilità della politica. E ha ancora una volta ragione il nostro autore a rilevare come “con la scomparsa dei partiti, di cui una democrazia ha bisogno per rappresentare gli interessi dei cittadini, ci siamo esposti ad altri tipi di raider”.
Vale per il capitalismo, ma vale anche per la politica: miserie molte, nobiltà poche. E per trovarle queste tracce, anche forti e marcate, dobbiamo andare un po’ indietro nel tempo a quando grazie ad Enrico Cuccia e Ugo La Malfa riuscirono a bloccare la parabola di Michele Sindona, o a quando Beniamino Andreatta dopo il delitto Calvi gestì, con grande indipendenza anche dalle pressioni del suo partito, la vicenda del Banco Ambrosiano. Il meglio della politica laica e cattolica (La Malfa e Andreatta), il meglio della finanza laica e cattolica (Cuccia, ma direi anche Raffaele Mattioli, e Bazoli).
Non a caso de Bortoli, alla fine del libro pubblica una serie di brevi ritratti di coloro che hanno rappresentato la nobiltà della storia politica economica e finanziaria della Repubblica. Spicca tra essi l’ultima di queste istantanee: è dedicata a Leo Valiani, uomo della lotta antifascista, storico, politico azionista, senatore a vita, giornalista: ormai agli ultimi giorni della sua vita avanzava traballante per i corridoi di via Solferino con pochi fogli nelle mani. Perché un collaboratore, e che collaboratore, gli articoli al direttore teneva a portarli di persona. Un’altra Italia, migliore di quella che viviamo. Certamente più autorevole. Come dimostra anche la vicenda dei possibili conflitti di interesse attorno a Banca Etruria di un ex ministro oggi sottosegretario che de Bortoli con l’accuratezza del cronista segnala, e che certo non hanno fatto e non faranno parte della storia nobile della Repubblica.