La disoccupazione e l’inoccupazione sono una condizione estremamente problematica per
l’individuo che la subisce e per la società, sotto una molteplicità di profili economici e
sociali, con un notevole impatto sulla vita dei lavoratori, delle lavoratrici e dei loro
famigliari. Si pensi in particolare alle problematiche sociali, relazionali, psicologiche e di
salute della disoccupazione di lunga durata e dell’inoccupazione giovanile.
Manca il lavoro e il lavoro che c’è si è precarizzato e impoverito, spesso è in nero e
sottopagato.
Le cause della disoccupazione e del basso tasso di occupazione sono da ricercare in un
Paese caratterizzato strutturalmente da un sistema produttivo debole e frammentato, che
investe poco in innovazione e ricerca, in cui a una lunga fase di bassa produttività e bassa
crescita, che ha visto i profitti spostarsi sempre più sulle rendite finanziarie e immobiliari, è
seguita una dura crisi mondiale aggravata dalle politiche di austerità. La ripresa è stata
tardiva, debole e non ha contribuito in modo significativo a creare buona occupazione
stabile.
Le politiche industriali sono state abbandonate, rinunciando a un intervento pubblico
diretto, in nome dell’ideologia del mercato che si regola da sé, del piccolo è bello e del
privato è sempre meglio. Le politiche di austerità hanno bloccato gli investimenti e ridotto il
perimetro pubblico degli enti locali e del welfare, così contribuendo anche a impoverire e
peggiorare drasticamente la qualità del lavoro in comparti manifatturieri e dei servizi in
crescita, come ambiente, trasporti e servizi di cura alla persona. Il welfare aziendale poi
tende in particolare a disarticolare il Servizio Sanitario Nazionale, aumenta le
diseguaglianze e non è davvero conveniente per il lavoratore, che perde reddito e
contributi previdenziali.
Da molti anni e sempre più acutamente negli anni recenti, ad esempio con il Jobs Act, le
politiche prevalenti hanno erroneamente immaginato le principali cause della
disoccupazione e dell’inoccupazione in una presunta eccessiva rigidità della regolazione
del mercato e del rapporto di lavoro, tanto più di fronte ai cambiamenti del mercato
mondiale e della tecnologia. Nella dominante temperie culturale neoliberista i diritti dei
lavoratori e la stabilità del rapporto di lavoro sono stati visti come un costo e un ostacolo
alla libertà d’impresa e alla crescita economica e conseguentemente come una causa
della bassa occupazione e della disoccupazione. La risposta è stata quindi una crescente
deregolazione e privatizzazione del mercato del lavoro e una crescente flessibilizzazione
del rapporto di lavoro. Questo ha contribuito a indebolire i lavoratori e i sindacati dei
lavoratori, a peggiorare la condizione dei lavoratori e delle lavoratrici, ma non ha
aumentato l’occupazione. Anzi, ha finito soltanto con il precarizzare in varie forme il lavoro che c’è e a instradare sempre più il Paese in un sentiero di “basso” sviluppo sempre più
insostenibile.
Questo ha comportato anche un aggravamento della debolezza strutturale nei comparti
dei servizi più avanzati e complementari alla manifattura, così lasciando insoluta una parte
importante del problema occupazionale dei giovani, che hanno ormai raggiunto livelli di
scolarizzazione e aspettative occupazionali che sarebbero meglio valorizzate da uno
sviluppo più ampio e qualificato delle attività dei servizi. Così i giovani sono sempre più
stretti fra inoccupazione, precariato e qualità del lavoro poco corrispondente alle loro
potenzialità e aspirazioni.
La legge Fornero ha drasticamente innalzato l’età del pensionamento, così contribuendo a
bloccare il turnover, senza affrontare e anzi aggravando il nodo della bassa e discontinua
contribuzione pensionistica di un numero crescente di lavoratori e lavoratrici che sempre
più facilmente rischiano di non avere una pensione dignitosa. Si è così scelto di scaricare
tutti i rischi economici e demografici sulle future pensioni dei lavoratori. Occorre invece
rendere il lavoro a tempo indeterminato più vantaggioso per il lavoratore e per l’impresa,
facendo sì che le imprese che per effettive ragioni organizzative si trovino a dover
utilizzare lavoro in modo temporaneo, comunque privilegiando i tempi determinati diretti e
in somministrazione, si facciano maggiormente carico di garantire anche per questa parte
del percorso occupazionale dei lavoratori un adeguato futuro pensionistico.
Emerge pressante l’esigenza di interventi immediati volti a evitare il perdurare dell’abuso
dei tirocini e delle partite IVA e a contrastare la reintroduzione strisciante dei voucher,
nonché forti preoccupazioni circa l’esaurimento degli ammortizzatori sociali “lunghi”, la
sostanziale inadeguatezza dell’assegno di ricollocazione, che finisce con il premiare
impropriamente imprese che utilizzano temporaneamente lavoratori che non si riesce
altrimenti a collocare.
È sconcertante che il governo proponga in termini tuttora confusi e fumosi il cosiddetto
“reddito di cittadinanza”, in realtà un reddito condizionato non solo alla prova dei mezzi ma
anche a percorsi di inserimento occupazionale indefiniti che rischiano di incidere
pesantemente sulle condizioni di lavoro di molti, senza che sia stata fatta alcuna
valutazione del reddito di inclusione, della sua attuazione, dei suoi effetti, anche alla luce
della scarsa copertura. Meglio sarebbe invece estendere le coperture del reddito di
inclusione, valutarne e correggerne l’attuazione e talune sue caratteristiche che rischiano
di farlo configurare come una figura eccessivamente condizionale, una sorta di “baratto
amministrativo”, che contiene un rapporto di potere sbilanciato e anacronistico. E al
contempo rafforzare, riordinare e integrare tutti i servizi coinvolti.
Non si aprirà una nuova stagione di crescita e sviluppo nel nostro Paese senza rimettere
al centro delle politiche pubbliche e della responsabilità sociale delle imprese il lavoro
stabile e dignitoso. Insieme a una cultura della cittadinanza, della legalità e della
partecipazione.
Per questo, all’opposto dei condoni del governo Lega-M5S, che si collocano in questo in
continuità con la stagione del neoliberismo berlusconiano, occorre innanzitutto contrastare
l’evasione fiscale e contributiva, il lavoro sommerso, la precarietà del lavoro e restituire
invece diritti ai lavoratori, a partire dall’art. 18.
Come promuovere la piena e buona occupazione?
Creare lavoro richiede innanzitutto di difendere e qualificare l’occupazione che c’è e di
rispettare il lavoro e coinvolgere i lavoratori e le lavoratrici, per rilanciare insieme la base
industriale del Paese, a partire da una conoscenza delle sue arretratezze e dei suoi punti
di forza.
Occorre potenziare e cambiare le politiche per l’Università e la ricerca, per l’istruzione e la
formazione. Va ascoltato il grido di abbandono dei lavoratori di una scuola in crisi di
organico e di risorse e che invece dovrebbe essere messa in condizione di affrontare
meglio in particolare le sfide dell’inclusione sociale e della mediazione culturale e
linguistica.
Occorre potenziare e cambiare le politiche attive del lavoro.
I centri per l’impiego pubblici sono stati abbandonati e depotenziati a favore di agenzie
private spesso inadeguate, finendo così con il penalizzare maggiormente le problematiche
legate ad esempio alle fragilità sociali, alle disabilità, all’immigrazione. Troppo spesso
l’assistenza ai disoccupati è impersonale e unidirezionale, non riesce a fornire strumenti
mirati e non è declinata sulle peculiarità del territorio e della persona destinataria del
servizio. Il rischio concreto è che l’enorme carico di adempimenti che si prospetta
scaricarsi sui centri per l’impiego per la problematica attuazione del cosiddetto “reddito di
cittadinanza”, aggravi fortemente una situazione già critica.
Occorre integrare di più e meglio le politiche per la formazione e le politiche attive del
lavoro.
In particolare, le attività formative più strutturate e con rilascio di qualifiche e
specializzazioni sembrano aumentare la probabilità di occupazione nel tempo, soprattutto
se meglio aderenti ai fabbisogni delle imprese e del territorio. Il caso della formazione per
gli OSS, ad esempio, mette in evidenza il ruolo del mercato del lavoro nel determinare il
successo della formazione in termini di occupazione: la formazione fatta per creare figure
professionali molto richieste produce effetti occupazionali più elevati. Conoscere i
fabbisogni formativi delle imprese non è tuttavia sufficiente per determinare l’offerta di
opportunità formative in quanto le persone possono avere altri bisogni formativi e altre
progettualità che in un’economia in continua trasformazione è bene riconoscere e
sostenere in quanto potrebbero costituire stimoli e contributi per il futuro. Senza
dimenticare che lo scarso utilizzo delle competenze dei lavoratori e delle lavoratrici
dipende anche fortemente dalle limitate capacità delle imprese ad utilizzarle e valorizzarle.
Vogliamo lavorare meno, ma lavorare tutti e meglio.
Tutti coloro che possono e vogliono lavorare devono poterlo fare e devono poterlo fare in
condizioni dignitose. È quindi sbagliato incentivare lo straordinario, mentre occorre ridurre
l’orario di lavoro a parità di salario, cosa tanto più necessaria a fronte dei processi in atto
di automazione delle produzioni, anche per contribuire a contrastare i problemi di
insicurezza sui luoghi di lavoro e il lavoro notturno e festivo.
Occorre però soprattutto restituire centralità all’intervento pubblico come motore capace di
accelerare e orientare in senso progressivo e sostenibile, sotto il profilo sia sociale che
ambientale, lo sviluppo economico.
Serve un grande piano del lavoro per la piena e buona occupazione e lo sviluppo
sostenibile.
Partiamo dal Paese che c’è per renderlo migliore.
Devono ripartire gli investimenti pubblici per la cura del territorio, la cultura, il patrimonio
storico e artistico.
Deve essere sostenuta la riconversione ecologica della nostra economia verso
un’economia circolare.
Devono essere sostenute la ricerca scientifica e l’innovazione tecnologica, non solo di
processo ma anche di prodotto, accompagnandole con una tassazione più equa per il
lavoro, perché anche attraverso il lavoro i benefici sociali che ne possono derivare siano
maggiormente condivisi.
Cuore di questo piano deve essere un programmato rilancio delle politiche assunzionali
pubbliche. La Pubblica Amministrazione italiana nel confronto internazionale è
sottodimensionata e “vecchia”. Servono centinaia di migliaia di assunzioni pubbliche per
consentire alla PA di coprire il turnover, lavorare meglio, innovare e affrontare le nuove
sfide. Questo può consentire anche di assumere molti giovani laureati, colmando almeno
in parte i limiti del sistema imprenditoriale privato.
Il piano del lavoro per la piena e buona occupazione che proponiamo dovrà essere
costruito valorizzando il ruolo delle parti sociali, il metodo della programmazione
partecipata ed essere accompagnato da una valutazione dell’attuazione, degli esiti e
dell’impatto sociale, aperta in particolare al contributo democratico dei lavoratori e delle
lavoratrici.