PACE E PROGRESSO
Obiettivi inscindibili e imprescindibili delle lotte e delle proposte di tutti i progressisti per un’alternativa di governo, i quali richiedono
UN NUOVO PARTITO DI MASSA.
Integrazione al documento di base in discussione all’Assemblea nazionale di Art. 1 “Movimento Democratico e Progressista” del 16 dicembre 2018, proposta da Francesco Adamo (Torino)
Condizione preliminare al necessario rinnovamento dell’economia e della società italiana ed anche alla costruzione di un’Unione politica di popoli europei in grado di garantire la pace e contribuire attivamente a realizzare uno sviluppo sempre più sostenibile e un più giusto ordine internazionale, è non solo la costruzione di un’alternativa all’attuale Governo ma anche il superamento delle concezioni dello sviluppo sociale, individualiste e liberiste, ancor dominanti seppur profondamente in crisi. Questo profondo cambiamento culturale è indispensabile in particolare l’instabilità e precarietà dei governi dalla fine della prima repubblica, per realizzare il risanamento, anche morale, dello Stato italiano, ch’è un’altra fondamentale condizione tanto per il progresso economico dell’Italia quanto perché l’Italia possa essere credibile ed esercitare un attivo ruolo internazionale.
La lotta e le alleanze che ciò comporta saranno tanto più possibili ed efficaci quanto più sapremo definire, sempre più precisamente e democraticamente, la nostra strategia ed i contenuti del programma di governo d’alternativa, in base al quale orientare anche le nostre lotte immediate su singole questioni.
In questo quadro si rende necessario – assieme ad un approfondimento delle linee di politica interna illustrate nel documento proposto per l’Assemblea nazionale di fondazione di un primo nucleo del Partito democratico-progressista da costruire – la definizione di quanto segue:
1°) obiettivi e linee d’azione della politica estera e di difesa , che si ritengono fondamentali per l’Italia e che quindi si vuole perseguire nel quadro di una nuova Unione Europea;
2°) la forma e l’organizzazione del Partito necessario a creare un’alternativa di governo capace di realizzare quanto suddetto ed i contenuti politici indicati dal documento di base e relative integrazioni.
La politica estera italiana e della futura Europa
I più pressanti problemi della società italiana, da quelli strettamente economici a quelli dell’immigrazione, dipendono largamente dalle sue relazioni internazionali e comunque non possono affrontarsi e risolversi se non contribuendo a mutare il contesto internazionale in cui l’Italia è fortemente inserita e da cui non può assolutamente prescindere per le sue necessità economiche e demografiche.
Innanzitutto occorre mutare l’Europa, contribuendo a costruire una nuova Unione politica, con gli Stati che ci stanno e condividono l’esigenza di una comune politica economico-monetaria e fiscale, una comune politica estera e non ultimo di difesa; a questo fine occorre intanto sostenere le proposte in tal senso poste da qualche paese, come ad esempio quella franco-tedesca emersa dall’incontro di Meseberg di “Istituire il bilancio dell’Eurozona, per la competitività, la convergenza e la stabilizzazione, a partire dal 2021”.
Solo in un’Europa autonoma, economicamente e militarmente, ci è possibile essere pienamente liberi, fare i nostri interessi e al tempo stesso svolgere un ruolo attivo per un più giusto ordine internazionale (economico, ecologico e anche politico) – in un mondo divenuto finalmente multilaterale, grazie all’emergere di Cina e india e alla ricostruzione della Russia. L’organizzazione della NATO (istituzione da superare formalmente). che per la sua efficienza sarebbe un peccato smantellare, va integrata con le forze delle altre potenze che comporranno il ristrutturato Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, dalle cui decisioni politiche dipenderà l’istituto internazionale così creato a garanzia della pace.
Occorre evitare – come per fortuna hanno recentemente iniziato a fare alcuni Stati europei – di assecondare le scelte di politica estera della Presidenza degli Stati Uniti d’America che , sotto la spinta del potente complesso industriale militare stanno ricostituendo situazioni da “guerra fredda”.
Nell’immediato si rende necessario e urgente, da parte delle forze progressiste, una decisa ripresa dell’attivismo e della riflessione sui problemi internazionali, e soprattutto un maggiore impegno volto a saldare problemi interni e problemi internazionali, sia nelle nostre proposte di programmazione economica che nella pratica dei nostri interventi in ciascuna azienda, in ciascun settore e luogo del nostro paese. Si tratta di far capire soprattutto che la lotta per un profondo rinnovamento della società e dell’economia italiana è tutt’uno con la lotta per la costruzione di un ordine internazionale veramente nuovo, più giusto, che è a sua volta momento fondamentale nella lotta per la pace e il progresso dell’umanità intera.
Questi importanti nessi – un tempo più volte ribaditi dai Partiti della sinistra, ma spesso richiamati solo quale semplice cornice delle nostre discussioni – oggi, nel momento in cui acuta è la crisi del movimento e dell’internazionalismo dei lavoratori, e in Italia e altrove gli elettori sono sottoposti a una disgustosa e pericolosa propaganda populista e sovranista, vanno approfonditi attraverso un confronto aperto nel costituendo Partito, nel movimento dei lavoratori e con tutte le forze democratiche.
Ciò è indispensabile: per evitare pericolosi arroccamenti, per respingere le spinte corporative, per cercare di superare in avanti la pluridecennale crisi dello Stato sociale, dopo l’illusorio tentativo di poterla superare all’indietro – di tornare cioè allo Stato liberale, già chiaramente fallito con la crisi del ‘29 – con la riaffermazione dell’ideologia liberista, grazie ai successi economici USA del decennio 1990, ed anche della liberalizzazione dei mercati sino all’affermarsi della potenza economica della Cina e al tracollo finanziario americano del 2007. Oggi, dopo aver visto che liberalizzazioni e delocalizzazioni si ritorcono contro il lavoro nei paesi a capitalismo più sviluppato, la via da seguire non può essere quella assurda del protezionismo, come proposto unilateralmente dagli USA di Trump (dopo decenni di propaganda liberista); ma certo è quella di una attenta regolazione dei mercati mondiali in sede WTO, in modo che l’apertura dei mercati, essenziale per un paese esportatore come l’Italia, sia garantita, ma si realizzi con la gradualità necessaria, coerentemente con lo sviluppo delle forze produttive e del mercato del lavoro.
Occorre al tempo stesso lanciare un nuovo internazionalismo per bloccare il tentativo che purtroppo si è fatto strada in questi anni, di porre i lavoratori di certe nazioni in contrapposizione antagonistica con quelli di altre nazioni ed in particolare il tentativo di ottenere così l’avallo dei lavoratori dei paesi sviluppati per rifiutare non solo l’immigrazione di lavoratori dai paesi meno sviluppati (pur se in una certa misura ci è indispensabile e quindi va promossa e regolata), ma anche per rifiutare le loro richieste di più eque ragioni di scambio – se non l’avallo per avventuristiche soluzioni neocoloniali.
Lottare per la costruzione di un ordina internazionale “nuovo”, più giusto, che è tale solo se pone le basi per garantire la pace e per superare il sottosviluppo, significa lottare per una politica estera innanzitutto dell’Italia, e della nuova Europa, capace di dare un contributo decisivo:
1°) alla costituzione di un organo multilaterale di governo effettivo del sistema (politico, economico ed ecologico) internazionale del mondo;
2°) al superamento di blocchi e alleanze militari regionali per un’organizzazione multilaterale mondiale sotto il controllo politico dell’organo di governo suddetto;
3°) alla democratizzazione quindi degli organismi internazionali che più attualmente contano (FMI, Banca Mondiale) e con la dovuta gradualità e forme adatte anche del governo multilaterale;
4°) alla costruzione quindi di uno stabile sistema monetario ed economico internazionale;
5°) al superamento del meccanismo dello “scambio ineguale” (già in parte superato sotto l’aspetto delle tecnologie), che è non solo ingiusto nei confronti dei paesi sottosviluppati, ma che è anche lo strumento con il quale di fatto si sono già largamente vanificate le conquiste dei lavoratori degli stessi paesi sviluppati;
6°) alla definizione e applicazione di un “codice di condotta” delle imprese transnazionali (produttive, commerciali e finanziarie), tale da consentire che esse – controllate e orientate da democratici (e quindi efficaci) organismi internazionali – diventino strumenti di cooperazione tra le nazioni, assieme a imprese pubbliche e a consorzi di piccole e medie imprese;
7°) alla costruzione, quindi, di rapporti d’interdipendenza, anziché di dipendenza, tra Paesi sviluppati e Paesi sottosviluppati (tra “Nord” e “Sud” del mondo, come si dice con un linguaggio comodo, sebbene mistificante nella sua apparente neutralità): di rapporti di cooperazione fondati sul mutuo interesse delle nazioni e quindi democraticamente programmati, anziché sulla “competizione” (che in sostanza è ancora oggi competizione inter-capitalistica, nell’interesse di pochi);
8°) alla istituzione, non per ultimo, di un’ ordinato sistema ecologico internazionale, fondato su criteri di equità a partire dal diritto fondamentale di ciascun essere umano a disporre di una pari quantità di vitali risorse del comune ecosistema terrestre, a partire dall’aria e dall’acqua che circolano non badando ai confini costruiti dalle nazioni. Per le politiche ed azioni necessarie a dare attuazione alle convenzioni internazionali per la tutela del comune ambiente naturale (come quelle del clima e della biodiversità), le indispensabili risorse finanziarie devono provenire non solo in proporzione al reddito di ciascuna Nazione ma danno creato all’ambiente comune del pianeta da parte di ciascuna nazione. Queste risorse, derivanti da vari meccanismi finanziari, dovrebbero provenire dai Paesi “debitori” ambientalmente (che consumano e sporcano di più della media mondiale) e confluire in un Fondo Ambientale Internazionale – presso la Banca Mondiale – che le amministrerebbe destinandole al finanziamento di progetti di sviluppo sostenibile a favore dei Paesi ambientalmente “creditori”.
Si tratta in breve di lottare per uno sviluppo e un ordine nuovo, alternativo all’attuale – che per i suoi valori potremmo chiamare “socialista”, se non fosse che anche questo termine è stato bruciato dalle realizzazioni del socialismo del XIX secolo – e che comporta mutamenti profondi, a livello nazionale e internazionale, nel modo di decidere, di produrre e di consumare.
In questo grande impegno è necessario stringere grandi intese e alleanze, anche con chi non è mosso dagli ideali di solidarietà e di giustizia del socialismo, della tradizione democratica e internazionalista della sinistra italiana e europea, dal momento che tale impegno risponde alle seguenti esigenze oggettive e inscindibili:
- evitare l’autodistruzione dell’umanità e garantirne il progresso –
- garantendo la pace, il che rende indispensabile bloccare a ripresa della corsa agli armamenti, promuoverne una riduzione negoziata e la graduale riconversione dell’industria bellica, ma certo al tempo stesso la rimozione dei motivi di tensione e di proliferazione degli armamenti (tra cui la fame, che di per sé continua a fare ancora più vittime delle guerre, la corsa all’accaparramento di materie prime, tra cui sempre più figurerà la terra coltivabile), la dipendenza e lo sfruttamento, la stessa instabilità economica e le ripetute crisi finanziarie, ecc.);
- evitando la distruzione delle risorse naturali e delle condizioni ambientali d’esistenza e di sussistenza dell’umanità, che è una minaccia ben più grave di quanto comunemente ed erroneamente si pensi, pur non trascurando le interpretazioni apocalittiche di certi studi pseudo-scientifici – ;
- superare veramente e in avanti la lunga transizione da capitalismo” rigido e nazionale, ford-tayloristico, all’attuale capitalismo “flessibile e globale”, fondato sull’elettronica, fase caratterizzata da ripetute recessioni, talvolta tanto lunghe da sembrare vere depressioni. Al di là delle specificità di ciascun paese, queste crisi, con le quali è difficile convivere, trovano fondamento nelle eccessive e crescenti disparità internazionali, nel processo di concentrazione monopolistica determinato da un mercato incontrollato com’è avvenuto dagli anni 1980 in poi: con la rivoluzione elettronica, la perdita di competitività dell’Europa e degli Stati Uniti rispetto al Giappone, riduzione della loro crescita e quindi la crisi fiscale dello Stato sociale, la decisa ripresa ed l’ininterrotto successo dell’economi americana negli anni 1990 e, sino alla crisi finanziaria del 2007, l’affermazione di uno sfrenato liberismo, accelerato certo dal crollo dei paesi europei del socialismo reale.
Forma e organizzazione del Partito
Il partito è certo necessario che sia di “massa”, se vuol essere veramente lo strumento della partecipazione democratica alla vita politica da parte dei cittadini previsto dalla Costituzione. La partecipazione dei cittadini – che non può essere solo virtuale, attraverso lo strumento pur importante del web – è indispensabile se si vuole che trovino consenso le scelte politiche, comprese quelle talvolta indispensabili che pongono sacrifici per tutti. A questo scopo, il partito deve basare la propria vita organizzazione interna su regole esplicite e chiare, fissando in particolare in maniera trasparente e uniforme per tutte le sue sedi le regole per l’elezione dei propri organi e candidati. Da quando, su proposta di Mariotto (detto Mario) Segni e dopo una vasta campagna per i SI, gli Italiani scelsero il sistema maggioritario rispetto al proporzionale, nel nostro paese si è assistito a un moltiplicarsi di proposte di cambiamento delle regole elettorali, essendo queste fondamentali per garantire la “democrazia”. Non meno essenziale a questo scopo è però che siano esplicitate (nello Statuto) e democratiche le regole elettorali interne alle associazioni che chiamiamo partiti, come peraltro vuole pure la nostra Costituzione. Vi sono leggi che definiscono regole per qualsiasi tipo associazione, ma non per i Partiti, che evidentemente non le vogliono.
Sia chiaro, quindi, che il partito di massa a cui penso, e che molti altri auspicano, non rappresenta semplicemente il ritorno ad una DC o a un PCI (organizzazioni che per altro non sfigurano affatto alla luce degli esperimenti degli ultimi trent’anni). Per la costruzione di un nuovo grande e duraturo partito non è affatto marginale la questione della sua forma-partito che deve essere esplicitata assieme ai principali problemi sociali e alle vie che s’intende perseguire per darvi adeguate soluzioni.